Apertura, disponibilità e tolleranza sono i punti salienti di svariate religioni, ma in ambito buddhista – senza per questo voler esaltare o magnificare siffatto intendimento spirituale – diventano imprescindibili. Tuttavia codesta visione illuminata non discende da qualità celesti e sublimi, ossia divine, ma dall’umile, quanto semplice, essere o divenire pienamente umani. Qui non si tratta di credere supinamente, né tanto meno di argomentare per tentare, con l’uso della ragione, di giungere ad un qualche risultato teorico. Semmai lo scopo è di realizzare il proprio discernimento – la peculiare consapevolezza – osservando prima ed esperendo subito dopo tutti i risvolti plausibili della propria esistenza con un approccio tanto razionale, quanto privo di credenze – e quindi pregiudizi – aprioristici. Nel Buddha non vi fu mai alcun fideismo di maniera, ma la ricerca costante di una chiara visione e comprensione. Leggiamo ordunque come si spiega, a tal proposito e quant’altro, il dotto e saggio monaco buddhista Walpola Rahula (1907 – 1997). […]
“Fra i fondatori di religioni, il Buddha (sempre che ci sia permesso di considerarlo fondatore di una religione nel senso comune del termine) fu l’unico maestro che dichiarò di non essere altro che un semplice essere umano. Gli altri maestri erano o una divinità o una sua incarnazione in forme diverse, o ispirati da essa. Il Buddha non solo era un essere umano, ma non ha mai affermato di avere tratto ispirazione da un dio o da un potere esterno. Considerava tutte le sue realizzazioni, i suoi conseguimenti e le sue azioni come proprie dello sforzo e dell’intelligenza umana. Un uomo e solo un uomo può diventare un Buddha. Ogni uomo ha dentro di sé la potenzialità di diventare un Buddha, basta che lo voglia e si sforzi. Possiamo definire il Buddha come l’uomo « per eccellenza ». Era così perfetto nel suo « essere uomo » che in seguito fu considerato dalla religiosità popolare quasi come « sovrumano ».
La posizione dell’uomo, secondo il buddhismo, è suprema. L’uomo è padrone di se stesso, e non esiste alcun essere o potere più alto che ne possa decidere il destino.
« Ognuno è il rifugio di se stesso, chi altri potrebbe essere il rifugio? » disse il Buddha. Egli ammonì i suoi discepoli a « essere un rifugio per se stessi » e a non cercare mai rifugio o aiuto in nessun altro. Egli insegnò, incoraggiò e stimolò ogni uomo a svilupparsi e a lavorare per la propria emancipazione, perché l’uomo ha il potere di liberarsi da tutti i legami per mezzo di uno sforzo personale e della sua intelligenza. Il Buddha disse: « Spetta a voi compiere il vostro sforzo, perché i Tathāgata insegnano solo la via ». Se dobbiamo considerare il Buddha come un « salvatore », lo è solo nel senso che ha scoperto e mostrato il Sentiero che conduce alla Liberazione, al nirvāna. Ma il Sentiero va percorso da soli.
In base a questo principio di responsabilità personale, il Buddha lasciava piena libertà ai suoi discepoli. Nel Mahāparinibbāna-sutta il Buddha afferma che non ha mai pensato di controllare il Sangha (l’Ordine dei monaci) né ha mai voluto che il Sangha dipendesse da lui. Egli disse che non c’era alcuna dottrina esoterica nel suo insegnamento, niente di celato nel « pugno chiuso del maestro » (ācariya-mutthi), o in altre parole: non c’era nessun asso nella manica.
La libertà di pensiero concessa dal Buddha non ha eguali altrove nella storia delle religioni. Questa libertà è necessaria perché, secondo il Buddha, l’emancipazione dell’uomo dipende dalla sua conquista della Verità e non dalla grazia benevola di un dio o da un potere esterno, come ricompensa per un comportamento corretto e obbediente. Una volta il Buddha visitò una piccola città chiamata Kesaputta, nel regno di Kosala. Gli abitanti di questa città erano chiamati Kālāma. Quando udirono che il Buddha si trovava nella loro città, i Kālāma andarono a fargli visita e gli dissero: « Signore, ci sono alcuni eremiti e brāhmana che visitano Kesaputta. Essi spiegano e chiariscono solo le proprie dottrine, mentre disprezzano, condannano e rifiutano le dottrine degli altri. Poi vengono eremiti e altri brāhmana, ed essi, a loro volta, spiegano e chiariscono solo le loro dottrine, mentre disprezzano, condannano e rifiutano le dottrine degli altri. Ma noi, Signore, da parte nostra abbiamo sempre dubbi e perplessità su chi, tra questi venerabili eremiti e brāhmana, dica la verità o dica il falso ».
Allora il Buddha diede loro questo consiglio, unico nella storia delle religioni:
« Bene, o Kālāma, è giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Ora, vedete, o Kālāma, non fatevi guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica o dall’inferenza, né dalla considerazione delle apparenze, né dal piacere della speculazione, né dalla verosimiglianza, né dall’idea: “Questo è il nostro maestro”. Invece, o Kālāma, quando capite da soli che certe cose non sono salutari (akusala) , ma cattive e sbagliate, allora abbandonatele … e quando capite da soli che certe cose sono salutari (kusala) e buone, allora accettatele e seguitele ».
Il Buddha andò oltre. Disse ai bhikkhu (monaci) che un discepolo dovrebbe sottoporre a esame lo stesso Tathāgata (Buddha) per convincersi pienamente del vero valore del proprio maestro. Secondo l’insegnamento del Buddha, il dubbio (vicikicchā) è uno dei Cinque impedimenti (nīvarana) a una chiara comprensione della Verità e al progresso spirituale (anzi, a qualsiasi tipo di progresso). Il dubbio, tuttavia, non è un « peccato », perché non ci sono articoli di fede nel buddhismo. Infatti nel buddhismo non c’è il « peccato » nel senso in cui è stato inteso da alcune religioni. La radice di tutti i mali è l’ignoranza (avijjā) , la falsa visione (micchā-ditthi). È un fatto innegabile che, finché ci sono dubbi, perplessità, esitazioni, non è possibile alcun progresso. Allo stesso modo non si può negare che si deve rimanere nel dubbio, fintanto che non si raggiunga chiarezza di comprensione e di visione. Ma per progredire oltre è assolutamente necessario liberarsi dal dubbio. E per liberarsi dal dubbio, bisogna vedere con chiarezza.
Non ha senso dire che non si devono avere dubbi o che bisogna credere. La semplice affermazione « Io credo » non significa raggiungere la comprensione e la consapevolezza. Quando uno studente è impegnato a risolvere un problema di matematica, arriva a un punto oltre il quale non sa come procedere, è in dubbio e ha delle perplessità. Finché ha un dubbio non può procedere. Se vuole procedere, deve risolvere questo dubbio. E ci sono diversi modi per risolverlo. Ma il solo dire « Io credo » o «Io non ho dubbi » certamente non risolverà il problema. Costringersi a credere e ad accettare una cosa senza comprenderla è un atteggiamento politico e non spirituale o intellettuale.
Il Buddha era sempre molto disponibile a risolvere i dubbi. Persino pochi minuti prima di morire, chiese più volte ai suoi discepoli di porgli delle domande nel caso avessero ancora dubbi sul suo insegnamento, perché non si rammaricassero in seguito di non esserseli fatti chiarire. Ma i discepoli rimasero in silenzio. Quello che egli disse allora fu toccante: «Se è a causa del rispetto per il Maestro che non chiedete, allora uno di voi informi il suo amico (ovvero: che dica il suo dubbio all’amico, cosicché questi possa porre la questione a nome dell’altro) ».
Non solo la libertà di pensiero, ma anche la tolleranza concessa dal Buddha colpisce lo studioso di storia delle religioni. Una volta, a Nālandā, un eminente e ricco capofamiglia di nome Upāli, noto discepolo laico di Nigantha Nātaputta (Jaina Mahāvīra) , fu espressamente invitato dal Mahāvīra in persona a incontrare il Buddha e a sconfiggerlo in una discussione su alcuni punti della teoria del karman, su cui il Buddha aveva opinioni diverse da quelle del Mahāvīra. Contrariamente alle aspettative Upāli, alla fine della discussione, si convinse che le opinioni del Buddha erano giuste e che quelle del suo maestro erano errate. Così pregò il Buddha di accettarlo come discepolo laico (upāsaka). Il Buddha allora gli chiese di riconsiderare la questione e di non avere fretta, perché « il considerare attentamente le cose è giusto per gli uomini rinomati come te ». Quando Upāli espresse di nuovo questo suo desiderio, il Buddha lo esortò a continuare a rispettare e a sostentare i suoi Maestri precedenti come faceva prima.
Questo spirito di tolleranza e comprensione è stato fin dall’inizio uno degli ideali più cari alla cultura e alla civiltà buddhista.”
[ Da: Walpola Rahula, “L’insegnamento del Buddha“ ]
– Walpola Rahula (amazon)
– Walpola Rahula (macrolibrarsi)
– Walpola Rahula Thero – Wikipedia