L’indagine introspettiva che prelude alla meditazione è – per certi versi – curiosità, desiderio di sapere, di conoscere, interesse. La curiosità può esser considerata dunque come una chiave capace di aprire una delle porte più recondite del nostro essere e consentire quindi quel genere di raccoglimento che prelude alla meditazione. Senza siffatto screening silente, quello dell’osservazione interiore, quale sarebbe l’obiettivo di star lì seduti col naso all’insù in attesa di un’imponderabile quanto improbabile panacea esistenziale? Naturalmente lo spirito di ricerca immotivata dovrebbe essere comunque prevalente. E cos’è la ricerca immotivata se non l’esordio, l’incipit di una congrua meditazione?… Ecco un’ottima e articolata disamina di Charlotte Joko Beck …
«Uno studente mi ha detto di recente che la sua motivazione principale alla pratica seduta era la curiosità. Si aspettava che dissentissi e lo disapprovassi. La verità è che sono perfettamente d’accordo. Siamo quasi sempre intrappolati nei pensieri, ossessionati da questo o da quello, e mai davvero nel presente. Ma a volte siamo perplessi di fronte a noi stessi e alle nostre ossessioni: “Perché mai sono così ansioso, depresso, irritato?”. Dalla perplessità nascono la curiosità e la volontà di osservare noi stessi e i nostri pensieri, per vedere come mai ce la prendiamo tanto. La spirale ripetitiva dei pensieri si allenta, e diventiamo consapevoli del momento presente. Quindi la curiosità è, in un certo senso, il cuore della pratica.
Se siamo davvero curiosi indaghiamo senza preconcetti. Sospendiamo le nostre credenze e semplicemente osserviamo, notiamo. Vogliamo conoscerci, capire come viviamo la nostra vita. Se lo facciamo con intelligenza, sperimentiamo la vita più direttamente e iniziamo a vedere che cos’è. Ora siamo seduti qui. Supponiamo che, invece di essere preoccupati per questo o per quello, rivolgiamo l’attenzione all’esperienza immediata. Notiamo che stiamo ascoltando. Percepiamo le ginocchia dolenti e le altre sensazioni fisiche. Poi perdiamo l’attenzione e i pensieri ricominciano a rigirare in una delle loro spirali. Ci accorgiamo di esserci distratti, torniamo indietro e ristabiliamo l’attenzione. Questo è lo schema classico di una normale seduta. Ciò che in realtà stiamo facendo è indagare noi stessi, i nostri pensieri, la nostra esperienza: udiamo, percepiamo, annusiamo. Le sensazioni innescano i pensieri, e la mente si ritrova in uno dei suoi lacci. Notiamo il laccio. Spostiamo leggermente l’attenzione e cominciamo a osservare: “Che cos’è tutto questo pensare?”. “Che cosa sto facendo?” “A cosa sto pensando?”. “Come mai penso sempre a questo e non a quello?”.
Se notiamo i pensieri invece di corrergli dietro, alla fine il pensiero si placa e possiamo indagare il momento successivo. Ad esempio, può nascere la consapevolezza: «Sto seduto da ore, e tutto il corpo incomincia a dolermi”. Lo investighiamo. Che cosa duole? Di che sensazione si tratta? Così diventiamo consapevoli non solo delle sensazioni ma anche dei pensieri su di esse. Notiamo il fatto che non abbiamo nessuna voglia di stare seduti. Osserviamo i pensieri di ribellione: “Quando suonerà la campana e finalmente mi un potrò muovere?”. Questa osservazione è una specie di curiosità, un’indagine di ciò che è. Stiamo semplicemente dando attenzione in ciò che avviene nella nostra vita o nella nostra seduta.
Questa pratica non va limitata alla seduta, ma portata in ogni situazione. Supponiamo di andare dal dentista per un’otturazione. Noto i miei pensieri: «Non mi piace che mi conficchino un ago nelle gengive”. Noto la tensione che fa capolino all’arrivo del dentista. Mentre ci salutiamo, “Buongiorno, come sta?” , noto il mio corpo che si irrigidisce. Poi arriva l’ago. Lo sento e sto con l’ago. Il dentista mi soccorre con alcuni consigli: «Respiri. Prenda un lungo respiro…”. È come gli esercizi per il parto naturale: se seguiamo il respiro non pensiamo al dolore, siamo semplicemente il dolore.
Facciamo del lavoro. Abbiamo un programma ben definito per la giornata, quando arriva il direttore: “Abbiamo una scadenza importante. Lascia stare quello che facevi e occupati di questo. Mi serve entro un’ora”. Se siamo praticanti, notiamo immediatamente le nostre reazioni fisiche anche mentre iniziamo il nuovo lavoro. Notiamo il corpo contrarsi e i pensieri risentiti: “Se dovesse farlo lui, non lo pretenderebbe in un’ora”. Notiamo i pensieri, li abbandoniamo e affrontiamo il nuovo compito. Ci radichiamo in esso.
Possiamo in questo modo tutta la nostra vita. “Quali sono le mie reazioni? Che cosa mi succede di fronte a ciò che fa la vita?”. La richiesta improvvisa del direttore è semplicemente qualcosa che la vita fa per me. Aver bisogno di un’otturazione è ciò che la vita fa per me. Di fronte a entrambi questi eventi ho sensazioni e pensieri. Se sto con le sensazioni e i pensieri, mi stabilisco nell’essere semplicemente qui, nell’essere semplicemente con le cose che vanno come vanno, nel fare semplicemente la cosa successiva, A mezzogiorno il direttore ritorna e dice: ‘È pronto?”. Non dice: “Come mai non hai ancora finito?”, ma capiamo che il messaggio è questo. Sentiamo il corpo che si irrigidisce di nuovo. Notiamo i pensieri di risentimento nei suoi confronti. Pranziamo in fretta invece di concederci il pasto tranquillo che avevamo in programma. Torniamo in ufficio e ci buttiamo di nuovo sul lavoro.
Se siamo così fortunati ad avere un lavoro che ci piace, notiamo anche questo. Notiamo che il corpo è più rilassato. Notiamo che affrontiamo i nostri compiti molto più facilmente. Ci facciamo assorbire, il tempo passa rapidamente, abbiamo meno pensieri perché l’oggetto della nostra attenzione ci piace. Ma quello che ci piace non è più importante di quello che non ci piace. Più pratichiamo, più lo scorrere di un momento dopo l’altro prende il controllo, senza riguardo per le nostre simpatie o antipatie. Siamo consapevoli della situazione che scorre dentro di noi e che ci lasciamo alle spalle. Stiamo semplicemente facendo quello che stiamo facendo, siamo consapevoli del fluire dell’esperienza. Niente di speciale. Il flusso prende sempre più il controllo rendendo la vita ragionevolmente buona.
Non è che tutto diventi piacevole, non possiamo prevedere cosa ci porterà la vita. Quando ci svegliamo al mattino non sappiamo se alle due del pomeriggio ci romperemo una gamba. Non sappiamo mai cosa avverrà, fa parte della bellezza di essere vivi.
La pratica non è nient’altro che questo atteggiamento curioso: «Che cosa sta accadendo in questo preciso momento? A cosa sto pensando? Che cosa sto provando? Che cosa mi sta offrendo la vita? Come lo userò? Qual è la cosa intelligente da fare? Qual è la cosa intelligente da fare nei confronti di un direttore irragionevole e irritato? Cosa fare quando l’otturazione diventa una tortura? Praticare è indagare in questo modo. Più veniamo a patti con i pensieri e le reazioni, più riusciamo semplicemente a essere con qualunque cosa vada fatta. Essenzialmente la pratica dello Zen è questo: funzionare di attimo in attimo.
Ma c’è una mosca nella minestra. La mosca è che spesso non abbiamo curiosità per la vita e non siamo aperti a essa. Invece di osservare con interesse il direttore irritato, restiamo intrappolati in pensieri e reazioni. Ci facciamo imprigionare in tortuose deviazioni mentali, spirali di pensieri. Senza pratica, ci restiamo intrappolati quasi per tutta la vita, ma, con anni di buona pratica, solo per il cinque o il dieci per cento del tempo.
La spirale di fronte al direttore impaziente potrebbe essere: “Chi diavolo pensa di essere? Finirlo in un’ora? È ridicolo!” Nasce la resistenza. “Gli faccio vedere io!” Potremmo persino sabotare il lavoro e, se non lo facciamo, sabotiamo noi stessi andando a cacciarci in pensieri di rabbia. Alla sera torniamo a casa e raccontiamo al partner il comportamento irragionevole del direttore: “È impossibile lavorare con lui, mi sta rovinando la vita”. In quelle nostre animate reazioni non c’era curiosità né spirito investigativo. Invece di applicare la curiosità osservante, ci siamo fatti imprigionare nella spirale delle ossessioni. Non ci limitiamo a osservare i nostri pensieri sul direttore, crediamo che sia giusto rivoltarci per ore e ore nei nostri pensieri di rabbia invece di vederli per quello che sono, di sentire le contrazioni fisiche che ne derivano e, per quanto possibile, di fare qualcosa per risolvere i problemi di lavoro.
Stare seduti è precisamente questo: indagare la nostra vita. Ma se ci perdiamo nella sequela di pensieri egocentrici, abbiamo smesso di indagare. Stiamo pensando a quanto le cose vanno male, oppure stiamo accusando un altro o noi stessi. Ogni persona ha il proprio stile per giustificare la propria esistenza. Ci piace che le nostre spirali aumentino sempre di più. Le amiamo, finché capiamo che ci stanno rovinando la vita.
Le persone si perdono in spirali e lacci di vario tipo. Per alcuni la spirale è: “Non posso fare niente prima di averlo capito a fondo”. Ci rifiutiamo di agire prima di aver analizzato tutto quanto. Altri risponderanno al direttore esigente: “Lo farò, ma a modo mio. E ciò significa farlo alla perfezione o per niente”. La nostra spirale può essere perfezionismo ossessivo, oppure un cappio filosofico: voler avere una raffigurazione perfetta dell’insieme. Quest’ultima trappola ha a che fare con il cercare sicurezza nella vita: solo se capiamo fino in fondo siamo sicuri. Un altro laccio è diventare ossessivamente indaffarati, lavorare in continuazione. Una variante è fare molte cose alla volta. I nostri lacci sono il nostro stile personale, che scopriamo etichettando i pensieri. Ecco perché etichettare i pensieri è così importante. Dobbiamo imparare dove e come ci piace andarci a incastrare, dobbiamo scoprire il nostro particolare stile di cascare nel laccio.
Sedendo impariamo i vari modi in cui ci piace ingannarci. Quando ci inganniamo, quando siamo presi al nostro laccio, non siamo curiosi ma meccanici, e seguiamo una decisione inconscia già presa in precedenza: “Devo essere così, devo comportarmi in questo modo”. Non possiamo ascoltare nessun dato sensoriale né vedere ciò che sta realmente accadendo. Non c’è vera curiosità sul nostro modo di funzionare e sulle altre azioni possibili. Il laccio del pensiero ossessivo egocentrico blocca tutto. L’apertura e la curiosità verso la vita sono state spazzate via.
La pratica seduta non è fondata su una speranza; si basa sul non sapere, sull’apertura e la curiosità. “Non so, ma posso indagare”. Ciascuno ha il suo particolare stile nel non farlo. Ci piace pensare per spirali, amiamo i lacci più che la vita. Il laccio è ciò che pensiamo di essere. “Io sono una persona così e così”. E amiamo i pensieri e le azioni che lo rafforzano, anche se sono privi di vita.
Più stiamo seduti e ci conosciamo, più siamo disposti a vedere i nostri lacci, a lasciarli essere e a lasciarli andare. Dedichiamo sempre più impegno all’essenza della pratica, cioè essere semplicemente aperti e curiosi, lasciando che la vita sia. Per un principiante, stare seduto così è la cosa più noiosa del mondo. Sediamo e non accade niente, salvo il rumore di una macchina che passa, una leggera trafittura alla gamba sinistra, l’aria. Per una persona aggrappata al proprio laccio personale, nasce naturalmente la domanda: “A che scopo lo stai facendo? Che utilità ha?”. La sua utilità è immensa, perché nella spaziosità della pratica la vita prende il controllo. La vita, l’intelligenza naturale o funzionamento delle cose, sa cosa fare.»
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Niente di speciale. Vivere lo zen“ ]
– Charlotte Joko Beck (macrolibrarsi)
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– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck