Procedere senza attendersi nulla in cambio! È così che dovrebbe essere l’approccio iniziale alla meditazione. Se ci si pongono degli obbiettivi, per quanto legittimi, seppur affatto opinabili, prim’ancora di cominciare, ci ritroveremo con le pive nel sacco. In tale ottica la meditazione è come l’amore. Se ami desideri il benessere, la felicità del soggetto delle tue cure, delle tue sincere attenzioni senza la benché minima aspettativa. D’altra parte la condotta migliore, quella sicuramente più etica e che offrirà, a chiunque, i suoi frutti più eccellenti è, per D.T. Suzuki – come per gli altri maestri zen – l’azione immotivata …
“La «virtù segreta» significa la pratica della bontà senza pensare ad alcun riconoscimento, né da parte di altri né da parte di sé stessi. […] Un bimbo sta annegando, io mi getto in acqua e lo salvo. Ciò che doveva essere fatto è stato fatto. Alla cosa, non penso più; mi allontano, me ne vado. Passa una nuvola, e il cielo resta azzurro e vasto come prima. Lo Zen chiama tutto ciò «agire senza merito» e lo paragona con l’opera di chi cerca di riempire un pozzo con della neve. […]
Cristo ha detto: «Se fai l’elemosina, che la tua sinistra non sappia ciò che fa la destra, che la tua elemosina sia segreta». Questa è una delle «virtù segrete» del buddhismo. Ma quando Cristo aggiunge: «Il Padre tuo, che ti vede in segreto, ti ricompenserà», si scorge la profonda differenza esistente fra buddhismo e cristianesimo. Fino a quando si pensa a qualcuno, Dio o diavolo, che conosce le nostre azioni, lo Zen dirà: «Non sei ancora dei nostri». Le azioni che si associano ad un tale pensiero non sono «azioni pure, senza merito», ma contengono scorie ed ombre. […] Nello Zen non dovrebbe restare traccia di coscienza dopo che si è fatta una elemosina […].
Li-tze, il filosofo cinese, descrive figurativamente questa disposizione dell’animo come segue: «Lasciai che la mia mente pensasse senza freno tutto ciò che voleva e che la mia bocca parlasse di ciò che le piaceva; allora dimenticai se il ‘questo e non questo’ fosse mio o di altri, se mio o di altri fosse il guadagno e la perdita […]; non seppi più dove la mia forma si appoggiasse, che cosa i miei piedi calcassero; andavo come il vento, ad est e ad ovest, simile ad una foglia staccata dal ramo; non sapevo se cavalcassi il vento o se fosse il vento a cavalcare me’». […]
Ciò a cui hanno mirato i discepoli di Chao-cheu, di Yun-men e di altri capi dello Zen è la completa identificazione dell’Io con l’oggetto del pensiero. Per questo, essi detestano il sentir pronunciare la parola Buddha o Zen […]. Si ascolti questo cortese rimprovero fatto da Fa-ien al suo discepolo Yuan-u: «Tranne un piccolo difetto, tu vai proprio bene». Yuan-u chiese ripetutamente quale fosse tale difetto. Il maestro alla fine disse: «Nei tuoi discorsi, parli troppo dello Zen». «Come!» protestò il discepolo, «se qualcuno studia lo Zen non è forse naturale che ne parli? Perché mai vi dispiace?». Fa-ien rispose: «È già meglio quando se ne parla come in una ordinaria conversazione quotidiana». Un monaco, che si trovava ad essere presente, chiese: «Perché detestate in special modo che si parli dello Zen?». La risposta lapidaria del maestro fu: «Perché mi si torce lo stomaco, a sentirne parlare».[…]
«O voi, seguaci della Verità, se volete pervenire ad una comprensione ortodossa [dello Zen] non dovete lasciarvi ingannare dagli altri. Qualunque ostacolo incontriate, interno o esterno, abbattetelo. Se incontrate il Buddha, uccidetelo; se incontrate il patriarca, uccidetelo; se incontrate l’Arhat, il genitore o il parente, uccideteli senza esitare: perché questa è la sola via della liberazione. Non vincolatevi a nessun oggetto, ma tenetevi in alto, andate avanti, restate liberi. Di tutti i cosiddetti seguaci della Verità di questo paese, non ve ne è uno che venga da me libero, distaccato dalle cose. Se devo avere a che fare con essi, comunque essi si presentino, li stendo a terra. Se confidano nella forza delle loro braccia, gliele tronco; se confidano nella loro eloquenza, li riduco al silenzio; se confidano nell’acutezza della loro vista, li accieco. Così è: nemmeno uno di essi si è presentato a me come un uomo solo, unico e libero. […]
Non esistono realtà all’esterno, né esiste qualcosa dentro di voi su cui possiate posare le mani. Voi restate attaccati al significato letterale di quel che vi dico; quanto sarebbe meglio che arrestiate ogni vostro desiderio e steste senza far nulla!»”.
(Da: D. T. Suzuki, Saggi sul Buddismo Zen)
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