Il Giardino del Tempio aveva uno stagno di proporzioni davvero insolite. Era così esteso da imporsi all’attenzione di chiunque. Le sue sponde pullulavano di stranissime rane (zen) che si comportavano in modo talmente inconsueto da lasciar stupefatto chicchessia. Mentre una parte di esse meditava silente e un copioso gruppetto recitava il suo mantra ancestrale, il resto si dedicava all’altrettanto nobile, quanto naturale sostentamento.
Ovviamente si alternavano di continuo, ma con una cadenza che sembrava orchestrata da un’autorità super partes e così perentoria da stupire sia gli umili monaci che gli stuoli di anonimi visitatori alla ricerca del Buddha che non c’è. In effetti il koan che veniva suggerito a ciascun ospite sin dall’ingresso era di “trovare il maestro invisibile”. Quindi di ossequiarlo aderendo ai suoi inespressi, quanto illuminati suggerimenti. Beh, il cimento proposto era arduo perfino per le menti più aguzze e intuitive, tant’è che alla fine della visita vedevi stuoli e stuoli d’incalliti ricercatori ritornarsene mogi mogi, ma nel contempo incredibilmente felici ed esultanti a testimoniare – a coloro che volessero perlomeno ascoltarli – la grandiosa esperienza meditativa a cui avevano avuto la fortuna di partecipare. E la storia? Qui non c’è stata storia, ma solo dis-insegnamento.