Qui e ora,
presente al presente,
poi quasi mezzo attento
nel nuovo vecchio istante.
È proprio questa la dura realtà. Nonostante tu conosca a menadito i prolegomeni della meditazione o, perlomeno, ne sappia già qualcosa, veleggi sempre in alto mare. Perché rifiuti con tanta pervicacia il salvifico approdo alla terra di nessuno degli antichi saggi?
La rana zen leggeva e rileggeva l’incipit del racconto, ma non lo capiva. Avrebbe potuto supporre, è vero, ma poi si sarebbe sentita defraudata, insicura. La rana aveva bisogno di concetti concreti cui aggrapparsi, grandi ideali – riconosciuti dai più – con cui identificarsi. D’altra parte chiedere lumi al maestro sarebbe stato inutile. Semmai avesse risposto avrebbe dovuto fare i conti con qualcuna di quelle sue mezze frasi pseudo-sibilline e lei, l’inveterata figlia delle paludi del Pianeta delle rane – che tuttavia non c’è – avrebbe smesso persino di meditare.
“Già, perché medito?”, sì chiese oramai confusa. “È vero, siedo qui, poi conto le stelle, per fortuna ora conto i respiri; infine, quando mi sento più concentrata, lascio quel fare che mi àncora comunque – un po’ di qua e un po’ di là – e percepisco l’essere, inodore, incolore, oppure l’insieme di tutti gli aromi e i colori possibili, l’iride stesso.
Piovigginava.
“Eppure nel libro degli “antenati anonimi” c’è scritto chiaramente che chiunque voglia realizzarsi dovrebbe levitare. Perlomeno su ciò dovrò chieder lumi.”
La rana si recò a passi felpati nel Tempio. Dove volete che fosse un maestro zen se non nel Tempio? Lasciamo correre su cosa facesse o meno. A ben pensarci sembrava proprio attenderla.
“Maestro”, esordì la rana senza i soliti pedissequi formalismi . “Che significa levitare?”
Il monaco le voltò le spalle e, senza degnarsi d’accennar la benché minima risposta, andò via.
“Eureka, forse ho capito”, pensò la rana. “Con la sua assenza il maestro mi ha indicato il vuoto. E’ da lì – da quel nulla-tutto – che dovrò attingere l’energia per comprendere l’insostanzialità di tutti i fenomeni; laddove non c’è ego ci sarà – prima o poi – illuminazione.”
Quindi sedette fissando il vuoto interiore, di pensieri, d’ideali, di concetti, di emozioni, di maestri … D’improvviso un accenno di rapimento estatico, le sovvenne la calma. Come una brezza s’insinuò tra le pieghe più riposte del suo habitus esistenziale. Avrebbe voluto danzare, sennonché il maestro si rifece vivo sedendo sul medesimo cuscino che aveva appena lasciato.
“Scusami”, le disse con un sorriso piottosto emblematico.
La rana zen, perplessa, non fiatò nemmeno, ma la sua mente non rimase a mezz’aria a contemplare il nulla, voleva chiarire l’equivoco. Si rivolse ancora verso l’astuto venerabile, però quell’accidente di monaco non c’era. Si era dileguato, per l’ennesima volta, con la leggerezza di una libellula, di un aquilone, senza lasciare traccia.
La rana zen ne aveva intravisto solo la tremula ombra proiettata sullo splendido mosaico di fine maiolica che adornava – senza pretese – l’altare presso cui si officiavano le meditazioni guidate di quella santa religione universale che nel 2050 circa aveva cominciato a sostituire gradualmente l’antico coacervo di superstiziose credenze sino allora supinamente accettate. Ebbene, qual era il significato effettivo di questo estroso andirivieni, comparse, relative assenze, ricomparse? Beh, non è che ci volesse un genio. Oramai l’aveva intuito persino il gatto che del Tempio – ma non del tempo – ne aveva fatto un baluardo di sopravvivenza estrema. Per meditare davvero devi sorvolare, devi levitare sulla contingenza, sui fatti come sulle idee, quindi sulle paure, poi sugli attaccamenti, infine, persino su te stesso.
La rana uscì fuori dall’edificio, si recò nel giardino. L’aria, a dir poco frizzante, era satura di aromi. Li senti? Se chiudi gli occhi e ti concentri un po’ li avvertirai anche tu… In effetti sono presenti dappertutto. Sono la quintessenza della tua super-coscienza. In realtà sono del tutto naturali. Sennonché, in genere, viviamo come zombie.
La rana zen sedette sull’arcinota “panchina delle anime confuse” e osservò il respiro, ma non se ne appropriò, sorvolò anche su quello. La natura o, se preferite, Dio Padre mentre indossava i fantasmagorici abiti in “stile cosmo”, fece il resto e le donò quella fiducia, quella speranza, che in effetti non aveva giammai conosciuto. Quella rana che da immemorabil tempo si dibatteva tra i più assurdi paradossi non c’era più. Evviva la rana.