La nostra cara amica rana zen si recò per l’ennesima volta dal suo proverbiale maestro.
Bene, gli ingredienti per un nuovo racconto ci sono tutti. C’è l’autore, cioè lo scrivente che ebbe la fortuna di riuscire ad annotare le confidenze del maestro, mentre ora le riporta tali e quali. Poi c’è il discepolo e, ovviamente, non mancherà il sentiero, il giardino, il tempio della meditazione e la pagoda presso cui i monaci ricevevano gioiosamente sia i loro ospiti che gli incommensurabili doni … della loro presenza. Che credevi, che fossero avidi?
Ok, sembrerebbe dunque che il mosaico sia perfetto. Ogni cosa è collocata al proprio posto. Esattamente lì dove avrebbe dovuto esserci.
La rana zen si guardò intorno tranquilla, poi trasalì. Si, accidenti, per qualche attimo le si sconvolse la mente. C’era la sabbia, la rastrelliera, le pietre che delimitavano il nulla, gli spazi effimeri che t’inducevano inevitabilmente a meditare, ma mancava un elemento essenziale. Investita d’improvviso da un raptus ansiogeno si precipitò fulminea verso quel gong translucido così levigato che bene o male poteva fungere da specchio e realizzò l’inspiegabile.
Mancava, si, c’era qualcosa che mancava. Mancava proprio se stessa. L’immagine riflessa nel superbo gong rivolto al centro della pagoda che dava sul viale che conduceva dritto dritto al lago non era affatto l’abituale sagoma di una giovane rana. Nello specchio non c’era nulla.
– “Maestro, ho trasceso il corpo?”
– “No, figliola.”
– “Ho realizzato l’essenza, il mio volto d’origine, quello che possedevo prim’ancora di nascere?”
– “No, figliola, hai dimenticato gli occhiali”.
E la rana zen conseguì un satori. O, almeno, così credette.
Epilogo
La rana zen sorrise di cuore. Ve l’immaginate una rana che sorride? Beh, se non l’avessi vista con i miei occhi non ci sarei riuscito nemmeno io.