– “Dipendere così dalle risorse esterne, dal cibo, dall’acqua, da tutto ciò che la maggior parte degli “altri” considerano con sussiego, o relativamente importante … beh … mi umilia, maestro, sono agli sgoccioli. Il castello di carte delle mie credenze è crollato. Le persone che credevo buone, che m’illudevo fossero consapevoli, si sono dimostrate delle belve. Mi definiscono povera per il semplice fatto che non ho più un lavoro. Sennonché, oltre che sentirmi reietta, abbandonata, mi vedo inutile, incapace.”
A questo punto la rana zen si attendeva di tutto: che il maestro la schernisse, che l’aiutasse, ma mai e poi mai una simile pioggia di randellate. Il maestro picchiava, picchiava duro, senza pietà, sembrava persino che si compiacesse del dolore inferto, dell’umiliazione arrecata. Picchiava per il solo gusto di picchiare.
– “Sopporta, andrà meglio”, si diceva, ma intanto l’insensato precettore l’inseguiva persino negli assurdi vialetti del giardino di meditazione, finanche negli oscuri meandri di quel povero straccio di mente cui la rana zen si appigliava. Oramai, la rana, cominciava a credere che tutto ciò – questa sorta d’irragionevole odissea – fosse persino utile quando una piuma proveniente da chissà dove le sfiorò la fronte. Una piuma che il sospiro del vento aveva deciso di donarle. La rana zen si fermò e invece di legnate le piovvero addosso stille di silenzio. Quindi – inaspettata-mente – si raddrizzò e ruggì. I conigli del bosco adiacente fuggirono, le faine svennero, i ratti che l’avevano ridotta pressoché a brandelli furono colti da un terrore così profondo che si trasformarono in ombre, e per sempre.
Morale: ruggite, ruggite pure, cari amici, siete già leoni o leonesse, ma l’avete dimenticato.