Una storia raccontata da Pema Chodron seguita da un breve commento.
Inferno e Paradiso
Un samurai grande e grosso andò da un maestro di Zen e gli disse «Dimmi qual è la natura del cielo e dell’inferno». Il maestro lo guardò in faccia e disse «Perché dovrei dar retta a un trasandato, disgustoso, miserabile pelandrone come te? A un verme come te, pensi che dovrei dire qualcosa?». Acceso dalla collera, il samurai trasse la spada e la alzò per tagliare la testa al maestro. Allora il maestro disse «Questo è l’inferno!». Immediatamente il samurai comprese di aver creato il suo stesso inferno, nero e caldo, pieno d’odio, di autodifesa, di rabbia e di rancore. Si avvide d’essere sprofondato nell’inferno fino al punto di esser pronto a uccidere. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e giunse le mani per inchinarsi in segno di gratitudine per questa comprensione. Allora il maestro disse «Questo è il paradiso!».
Commento
La prima reazione del samurai è il modo stesso con cui, in genere, ci auto-infliggiamo ogni genere di sofferenze interiori. È la risposta impulsiva dell’ego che si sente ferito. Qual è il motivo di cotanta passionale e irriflessiva protervia? Innanzitutto non manteniamo la giusta equidistanza – tra noi e gli eventi che si susseguono a iosa – lasciandoci oltremodo coinvolgere. Semplicistico, riduttivo? Il vero problema non è tanto l’identificazione – che rimane pur sempre una valida interpretazione teorica – quanto il fatto che i nostri piedi non poggino su una solida base di concreta auto-consapevolezza. I nostri piedi si reggono sull’effimero, gravitano sulle idee, intorno a nozioni raccogliticce, su sensazioni temporanee, passeggere. Come uscirne? La domanda di prassi sarebbe: “Chi sono io?”
Investighiamo, proviamo a comprendere, innanzitutto, cos’è che non siamo. Non sono la mente che, ben lungi dall’essere una sorta di contenitore, un’agenda esistenziale delle mie vite, quella passata, l’attuale e, molto probabilmente, finanche quella futura, si comporta come il più flessibile degli specchi. Ma non sono nemmeno la mente, intesa come una sequela ininterrotta di pensieri. Non sono, neppure, tutto ciò che, di volta in volta, mi si presenta!
E se fossi, in realtà, sola coscienza, percezione senza pensiero? È proprio ciò che accadde al samurai della nostra storia. Avendo intuito che, in effetti, erano state le sue stesse proiezioni a beffarlo, cominciò a guardare il maestro, ossia la realtà, direttamente, de visu, con i propri occhi, senza intermediazione di sorta.
Grazie.