Una volta il mio maestro, un monaco zen, un singolare insegnante di meditazione, mi disse: “Intraprendere un cammino o una conversione spirituale non è ritirarsi dal mondo. Se lo facessi correresti il rischio d’incartocciarti su te stesso giocando solo con l’immaginazione. Ritirarsi, nonché isolarsi, equivarrebbe a fuggire. La via più consona al tuo tipo di mentalità non sarebbe nemmeno lottare, perché “tu”, in realtà, non esisti. Sei già puro vuoto, un puro nulla attorno a cui ruota la straordinaria giostra degli eventi. Che fare, dunque? Va sempre oltre, qualunque cosa faccia sii sempre coraggioso.”
“E’ un bel dire, maestro”, gli risposi. “Ma in pratica?”
Ebbene mi volsi per ricevere il suo ennesimo insegnamento, ma lui non c’era più, era andato oltre. Solo allora compresi cosa fossero gli attaccamenti, perché rinunciarvi e come accettare la vita vera, quella che deve accadere, senza più trascinarmi l’eterno passato.
Per andare oltre
Bene, che fai, t’incarti nel tuo dire?
T’inoltri nelle idee,
su ciò ch’è giusto o falso, benefico o dannoso?
Rielabori i pensieri che l’ideologia imperante
t’impone di soppiatto
senza che tu nemmeno
– non dico di esser scettico –
te ne renda conto?
Attendi che il tuo piglio riprenda quelle rèdini
che l’indole dei più ha oramai mollato?
Ma dico, cosa credi,
che i termini rinuncia e accettazione,
facciano parte dell’antico novero
di quelle qualità per nulla intrinseche
che il saggio realizzò
e l’umile le disse spirituali?
No, l’unico nesso per andare oltre
la mente che serpeggia suo malgrado
è quel coraggio, semmai che ti consente
di superar te stesso
a beneficio di chi
t’ami o non t’ami.