La meditazione è superiore all’ascetismo severo e alla via della conoscenza. È superiore anche al servizio disinteressato.(Bhagavad Gita 6:46)
Le tre vie succitate, ossia:
1) l’ascetismo in quanto annichilimento – mortificazione – di qualunque velleità mondana e rinuncia – negazione, abbandono – di ogni forma di piacere, se non persino soddisfazione interiore per aspirare a una percezione o comunione di genere ancor più elevato, quella puramente spirituale;
2) la conoscenza come studio e approfondimento dei testi sacri relativi alla propria religione sino a raggiungere e sublimare le più intime peculiarità cognitive, logiche e pragmatiche per aprirsi, senza batter ciglio, all’unica verità presumibilmente possibile; una ricerca che tuttavia corre il rischio d’indirizzarci – comunque – proprio su ciò a cui si stava così meticolosamente anelando;
3) il servizio disinteressato, cioè l’amore per il prossimo, la compassione sostenuta dalla consapevolezza che siamo fondamentalmente uniti da un unico identico destino;
dicevo, queste tre vie non sono affatto paragonabili a quella della meditazione che consiste, fondamentalmente, nella rinuncia perentoria all’ego. Innanzitutto lo si smaschera con una prassi introspettiva che – nella storia del mondo finora conosciuto – non ha eguali. Quindi, avendolo scrutato – esaminato, indagato – in tutti i suoi più melliflui risvolti e avendone afferrato la sua effettiva inconsistenza, la sua profonda irrealtà, il suo inveterato ruolo di maschera che ci separa da “ciò che è” la vita vera, l’amore, la gioia implicita, lo si abbandona del tutto spontaneamente.
Di cosa sia di fatto, nei dettagli, la meditazione non è un segreto. La parola chiave più pertinente per richiamarla mi sembra “osservazione”.