«La resa è la fine del combattimento, non uno stratagemma per evitarlo. E il combattimento consiste nel vedere di cosa sia capace la mente, di quali fantasmi si agitano in essa, del buio che vi si annida. Non basta dire mi arrendo, […]. A cosa mai ti potresti arrendere? Chi si arrenderebbe? Prima guarda, combatti per vedere, e una volta che avrai appurato che erano solo fantasmi; solo allora ti arrenderai […] perché non è possibile combattere contro i fantasmi. […] Solo allora potrai arrenderti, non prima, non evitando il combattimento. […] (Ajad Akaam)»
La vera resa non è una qualche forma di rinuncia, di abbandono. Mollare la presa non implica astenersi dall’osservare i pensieri, le formazioni mentali. La vera resa è il riposo del guerriero, ossia di colui che avendo lottato finanche con l’anima ai denti per raggiungere i propri obiettivi, di colui che avendo esercitato la volontà sino ad esaurire le peculiari risorse psichiche, si è reso conto che avrebbe dovuto temporeggiare un attimo, riposare in se stesso.
Il guerriero ha combattuto strenuamente per infrangere e travolgere, innanzitutto, quella sorta di legami o dipendenze emotive occulte che lo tenevano abbarbicato alle proprie illusioni. Dopodiché ha, infine, constatato che l’unica realizzazione possibile era sempre lì, a portata di mano, a una spanna delle sue verosimili propaggini intuitive, in procinto di manifestarsi.
Tuttavia ciò che credeva fosse l’apice, la vetta, nicchiava. Sarebbe stato sufficiente allungare, seppur metaforicamente, la mano, distendere le lunghe ed eteriche dita, arpionare ad uncino l’inconfondibile meta per spiccare quel balzo – allegorico – che schiere, legioni d’impavidi ricercatori del nulla avevano da sempre tentato di agguantare, d’immortalare, di eternare. E invece …
Non pretendere di controllare tutto ciò che – per sua natura – non può essere diretto, dominato, regolato. Ci sono pulsioni – come ad esempio quelle emotive – che hanno i loro ritmi. Forzarli è vano. Dissuadere l’amore, così come imporlo, è utopico. Qui non si tratta nemmeno di arrendersi all’evidenza, perché la psiche procede sempre – in simultanea – a più livelli. Una parte di te vorrebbe realizzare un determinato obiettivo, l’altra lo rifiuta. Se insistessi andresti contro te stesso.
Quindi attenzione – lo ribadisco –, quanto viene indicato come resa, ossia accettazione di “ciò che è” non è una rinuncia a priori a esperire le vie della ricerca interiore, a porsi e riporsi la domanda “chi sono io?” o, al contrario, a sentire con pervicacia di “essere”. Si tratta solo di allentare temporaneamente la presa, ritirarsi per qualche breve frangente dalla lotta per la vita, tacitare il prorompente fragore della volontà che tenta a tutti i costi d’imporsi e … fermarsi, quindi acquietarsi. Si tratta, invero, molto più semplicemente, di una pausa, una sosta, una tregua dell’ancorché ambizioso ricercatore-guerriero che si raccoglie in se stesso – e dove altrimenti? –, si ritempra, pronto a riprendere indomito il proprio perpetuo, indefinibile, sacrosanto cammino.
Infine, per quanto concerne la prassi meditativa più specifica, tutto ciò che in realtà bisogna predisporsi ad accogliere è la calma, il rilassamento interiore.