Quanti anni sono trascorsi da quando ho iniziato a interessarmi prima di yoga e, quindi, di meditazione? Fermo restando il fatto che il nostro modo colloquiale di esprimerci è, purtroppo, spesso semplicistico – infatti lo yoga è già meditazione –: cosa ho evinto nel corso di questo lungo, per certi versi persino stratosferico, cammino? Le mie deduzioni sono sempre pragmatiche. E’ vero, a volte mi avvalgo della teoria, ma solo per esplorare ulteriori possibilità. Quindi cerco sempre la sintesi, il nucleo, ciò che consente e facilita, di fatto, la meditazione.
Oggigiorno è invalsa l’abitudine d’indicare la meditazione con il termine mindfulness, ma in realtà il training meditativo è piuttosto l’insieme di almeno due approcci complementari, di cui gli uni non possono escludere gli altri. La mindfulness è, per l’appunto, un processo di consapevolezza analogo alla Vipassana di matrice buddista che, per esser considerato a tutti gli effetti meditazione, non dovrebbe prescindere dall’approccio detto Samatha – l’interiorizzazione della mente –, ossia … chiarisco subito con un esempio che, in ogni caso, non è un esercizio.
Se fissi di continuo un punto – su una parete bianca – prima o poi scompare: la mente più superficiale ha smesso, probabilmente, di elaborare e ti ritrovi in un limbo pre-cosciente di calma e relativo silenzio foriero della meditazione super-cosciente. Riepilogando, sei partito da un dato concreto, hai contemplato – o, pur con le debite differenze, ti sei concentrato su – un’immagine ritenuta sacra o altro e ti sei ritrovato in una sorta di singolarità spazio-temporale, nella purezza. Forse cominci a intravedere dov’è che voglio approdare. Sei partito da una qualche forma di essere per scoprire l’esistenza del puro non-essere. Sembra una contraddizione in termini, ma è la dimensione della meditazione. Se poi si approfondisce ulteriormente ci si accorge che la distinzione tra essere non-essere è mera, fittizia. Ma questa è un’altra storia.