Meditazione, un processo, un percorso, una sfida? Un tentativo per raggiungere il momento in cui ciascuno possa vivere con naturalezza. La società interviene inevitabilmente con l’educazione – non c’è alternativa – imponendo la rinuncia alla spontaneità, ma una volta raggiunti i suoi scopi non si cura affatto di rendere la vita individuale nuovamente ricca e creativa. Quindi sono stati trovati degli artifici per consentire, a chi ne avesse bisogno, di recuperare fiducia fino a sentirsi nuovamente uniti con l’esistenza. Non più monadi isolate, ma esseri che condividono la medesima origine.
Sfide
Quale entità crea ed esalta il valore delle sfide? Ma è l’ego! Ciò non significa che senza ego la vita sia una passeggiata. Tutt’altro! Le complicazioni sono una caratteristica della mente che ambisce, che tenta di crearsi un alibi per procrastinare un proprio modello ideale e creare e ricreare il circolo vizioso delle identificazioni.
Persino la meditazione diviene una sorta di sfida. Ci si crea l’illusione di dover superare chissà quali insormontabili ostacoli. Più sono ardui, maggiore è l’impegno richiesto, più grandi sono le speranze di un’improbabile trasformazione interiore. Vorrei fosse chiara una cosa. Non v’è nulla da cambiare, trasformare, e nemmeno da migliorare. Ciò che dovrebbe mutare è la prospettiva d’osservazione di tutto quanto ci circonda in modo da riuscire a percepire il silenzio che emana con dolce e soave musicalità sia dalla propria interiorità che dall’interpretazione che noi diamo alla realtà. In pratica non esiste nessuna trasformazione interiore, ma bisogna consentire, permettere, lasciar emergere dal silenzio dell’inconoscibile che sopravviene nel momento in cui la mente si calma, la natura intrinseca – spirituale – d’ogni fenomeno.
Assenza di sforzo
D’altro canto, l’assenza di sforzo, la disponibilità relativa, non sono comportamenti cui attenersi, ma prerogative da conquistare con qualche sacrificio, con la propria applicazione, attenzione, comprensione, ecc.
Un esempio un po’ più concreto. Anche un corpo solido che viaggia nel vuoto necessita di una spinta un’accelerazione iniziale. Solo successivamente proseguirà per inerzia, ma dapprincipio l’applicazione di una certa forza, di una spinta, di una programmazione o motivazione sono essenziali.
Come non avere occupazioni non significa astenersi da qualunque attività, ma trovare il modo di rilassarsi, sia fisicamente che mentalmente. Ciò potrebbe avvenire in modo spontaneo, ma in genere accade soprattutto come conseguenza a un determinato impegno. Fare per non fare. Ma in che modo pervenire al non-fare meditativo, cioè alla meditazione come non-fare? E’ quasi sempre indispensabile che i principianti sperimentino e si coinvolgano attivamente. Quindi seguirà, in modo relativamente spontaneo, un certo periodo di vigile quiescenza – riposo, calma, inattività, immobilità, inerzia, quiete, attesa, tranquillità, arrendevolezza, accettazione, passività – e gradevole rilassamento.
Meditatori intraprendenti e provetti, adusi alla concentrazione, nonché all’applicazione dell’attenzione, non vi scoraggiate leggendo quanto sopra, si tratta di un metodo ottimo. Infatti per sforzo s’intende l’impegno a superare l’impasse iniziale che, talvolta, v’impedisce di principiare a meditare. Ma una volta superata la vostra stessa ritrosia – il Grande Sigillo (Maha-mudrâ) di Tilopâ – la spontaneità, in quanto assenza di sforzo, può rivelarsi fondamentale. Dipende dalle vostre inclinazioni naturali …
Riassumendo, pace interiore, sforzo, sfide e desideri non sono poli opposti. Per raggiungere la tranquillità c’è bisogno di rilassarsi, di “mollare la presa”. Ma questo genere di “resa” interiore non può avvenire che dopo uno sforzo e il suo coronamento – tuttavia attenzione, perché la soddisfazione del relativo desiderio è un evento temporaneo che reitera il gioco all’infinito – oppure dall’aver compreso in pratica, cioè non solo intellettualmente, bensì soprattutto esistenzialmente, che non c’è nessun soggetto che deve o può arrendersi.
Riflessioni
Lo sforzo per meditare? E’ solo iniziale. E per scrivere, rispondere, interloquire, interagire? Dovremo pur concentrarci. A meno che, naturalmente, non si diventi così sensibili da sfiorare quasi uno stato mistico e vedere se stessi scrivere, le parole e le azioni che fluiscono da sé senza il proprio intervento, come dirette o scaturite da un’energia e vivacità sovrastanti. Ma, chiarisco, queste sono circostanze estreme. La realtà è ben più semplice e modesta. Cos’è che cerchiamo, il successo, l’autorevolezza, la modestia, un insieme di tutto ciò? Oppure non cerchiamo nulla?
Le sfumature dell’esperienza soggettiva sono così tante che senza zelo è difficile ottenere alcunché. La quiescenza meditativa, il non-fare, sono una conseguenza dei propri sforzi. Quindi ci si ritrova, per qualche tempo, nella condizione di agire in modo più fluido. Nessun affanno. E’ come il giorno e la notte, sforzo e assenza di sforzo, sogno e consapevolezza si succedono ciclicamente.
Epilogo
Non penso che nella meditazione si possano applicare gli stessi criteri o metri di giudizio, quali la crescita, così come avviene nel resto della vita pratica. O, per lo meno, la crescita è così sotterranea, che è difficile valutarla. L’esempio classico è il germogliare di un seme. Se lo dissotterriamo per verificarne lo sviluppo, il seme può persino rinsecchirsi. Poi, quando sembra che oramai non ci sia più nulla da fare, ecco spuntare la nuova piantina in tutto il suo vigore. Questo è uno dei sensi, cioè dei significati o implicazioni, della fede. L’ancestrale fiducia del contadino che tutto andrà per il meglio.