L’importanza che le varie pratiche di meditazione attribuiscono alla capacità di osservare – vieppiù con relativo distacco – è ben fondata e ha motivi che vanno al di là dello sviluppo di una peculiare attitudine alla concentrazione. La domanda che ci si pone in guisa del tutto spontanea è dunque: chi è colui che osserva? Nulla di nuovo, penserete. Si, ma solo in apparenza. Se vedo la moltitudine dei miei pensieri che si accavallano e si affastellano di continuo tentando persino di sopraffarsi l’un l’altro e, percepisco, di conseguenza, la mia stessa mente che si adopera e finanche arrovella per dirimere ogni genere di consenso o contrasto… chi è colui che osserva ogni guizzo pensante – quindi la mente medesima – e gli sorride con la benevolenza di un nuovo soggetto? Potremmo indicarla come super-coscienza? Al di là del lessico adoperato credo che la lettura dei seguenti richiami di Charlotte Joko Beck in merito allo sviluppo sull’abilità di guardare attentamente, notare, rilevare, saranno molto utili. …
«Se sono capace di osservare la rabbia nella mia mente e nel mio corpo, chi è l”io’ che osserva? Ciò mi rivela che io sono altro dalla mia rabbia, più grande della mia rabbia, e questa comprensione mi mette in grado di ampliare il Contenitore, di crescere. Dobbiamo sviluppare la capacità di osservare, senza assegnare speciale importanza a ciò che osserviamo. Non importa se siamo irritati; ciò che importa è la capacità di osservare l’irritazione.
Crescendo la capacità, prima di osservare e poi di sperimentare, si sviluppano parallelamente due fattori: la saggezza, cioè la capacità di vedere la vita così com’è (non come vorrei che fosse), e la compassione, cioè l’azione spontanea che sgorga dal vedere la vita così com’è. La compassione è impossibile se il contatto con le persone e le cose è impedito dall’orgoglio e dalla reazione irata. La compassione cresce allargando il Contenitore.
Praticando scaviamo sempre più in profondità nella nostra vita così come la conoscevamo. Il processo avviene diversamente secondo le persone, la loro storia e la situazione individuale. Per alcuni avviene in modo dolce, con un lento distacco. Per altri succede in tremende ondate emotive, come una diga che crolla. Abbiamo paura di venire sommersi e trascinati via. È come se avessimo costruito una muraglia per tenere fuori un pezzo di oceano e, con il crollo della diga, l’acqua riconquista la sua posizione naturale. Il sollievo viene dal fatto che torna a scorrere con le correnti e la vastità dell’oceano.
Personalmente ritengo che il processo non debba essere troppo rapido. Se corre troppo, penso che occorra rallentarlo. Lacrime, tremiti e sconvolgimenti non sono inutili: la diga si sta incrinando. Ma non è necessario che crolli di colpo. Meglio rallentare il processo. Se crolla di colpo, va bene lo stesso, ma non dev’essere per forza così. Crediamo di essere tutti uguali ma, probabilmente, più abbiamo avuto un’infanzia repressa e difficile, più la diga deve cedere lentamente. E anche se la nostra vita è andata sempre liscia, c’è sempre una diga che prima o poi deve crollare.
Ricordate che un po’ d’umorismo non è una cattiva idea. Ho già detto che non si tratta di forzarci a lasciare le cose, neppure le nostre nevrosi. È utile incominciarne a vedere il lato comico, l’aspetto buffo dei rapporti con gli altri. Sono tutti matti, e anche noi. È l’orgoglio che ci impedisce di vedere la nostra follia.»
(Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“)
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