Le riflessioni di Alan W. Watts in merito all’esistenza o meno di Dio e i relativi richiami alla prassi scientifica volta a formulare le conseguenti ipotesi mi hanno rammentato l’odierna confusione mediatica sul corretto utilizzo dei metodi razionali. Checché s’intenda sostenere – e quindi dimostrare – non si possono giammai accettare ipotesi che non possano essere – in qualche modo – provate, verificate. Oggigiorno si tende – per l’appunto – a sovvertire i termini della questione. Prima si accetta – purché appena appena realistica – una determinata congettura, quindi la si mette in discussione. Il risultato sarà, in ogni caso, scontato. Questa sorta di fideismo aprioristico cui le masse sono state – sin da tempi molto remoti – purtroppo educate sovverte i termini di qualunque discorso costruttivo. Gli scenari culturali diventano così uniformi che l’unico elemento invariante sarà comunque la paura, il timore di tradire e, di conseguenza, rinnegare determinati miti, siano essi di natura religiosa o, perfino, politica …
«Tutto sommato la scienza ha detto: Non sappiamo, e con ogni probabilità non possiamo sapere, se Dio esiste.
Non c’è niente di quanto sappiamo che ne suggerisca l’esistenza, e tutte le argomentazioni che hanno la pretesa di dimostrarla risultano prive di significato logico.
In realtà niente prova che Dio non esiste, ma l’onere della prova spetta a chi ne propone l’idea.
Se credi in Dio, direbbero gli scienziati, devi farlo su basi puramente emotive, senza alcun fondamento logico o di fatto. In pratica questo può essere ateismo. In teoria è semplicemente agnosticismo.
L’essenza dell’onestà scientifica sta proprio nel non avere la pretesa di conoscere ciò che non si conosce, e l’essenza del metodo scientifico sta proprio nel non usare ipotesi che non possano essere verificate.
Le immediate conseguenze di questa onestà sono state profondamente sconvolgenti e deprimenti.
L’uomo infatti sembra incapace di vivere senza miti, senza la convinzione che la routine e la fatica, il dolore e la paura di questa vita hanno significato o scopo per il futuro.
Sorgono subito nuovi miti: miti politici ed economici con grandiose promesse del migliore dei futuri in questo mondo. Essi danno all’individuo un certo senso di significato rendendolo partecipe di un ampio sforzo sociale in cui egli perde un po’ del suo vuoto e della sua solitudine.
Eppure, proprio la violenza di queste religioni politiche tradisce l’angoscia che sta dietro di esse, poiché d’altro non si tratta che di uomini i quali si accalcano e urlano per farsi coraggio nel buio.
Non appena si abbia il sospetto che la religione è un mito, essa perde ogni potere.
Può darsi che all’uomo sia necessario un mito, ma egli non può prescriversene uno consciamente, come si prepara una pillola per il mal di testa. Un mito può ‘funzionare’ solo se lo si considera come la verità, e l’uomo non può ‘illudere’ consapevolmente e intenzionalmente se stesso per molto tempo.
È un fatto che anche i migliori apologeti della religione sembrano trascurare. Le loro argomentazioni più efficaci in favore di un qualche tipo di ritorno all’ortodossia sono quelle che dimostrano i vantaggi sociali e morali del credere in Dio. Questo però non prova che Dio è una realtà. Al massimo prova che è utile credere in Dio. “Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo“.
Forse. Ma se la gente ha il minimo sospetto che Dio non esista, l’invenzione è inutile. Ecco perché il ritorno all’ortodossia, cui assistiamo oggi presso alcune cerchie intellettuali, ha in genere un suono piuttosto falso. Si tratta per buona parte più di credere nel fatto di credere che di credere in Dio.
Il contrasto fra il ‘moderno’ insicuro, nevrotico, istruito e la tranquilla dignità e pace interiore del vecchio credente rende quest’ultimo un uomo invidiabile.
Ma facciamo della psicologia un uso completamente sbagliato se consideriamo la presenza o l’assenza della nevrosi come la pietra di paragone della verità, e argomentiamo che se una filosofia dell’uomo lo rende nevrotico, dev’essere erronea.
“La maggior parte degli atei e degli agnostici sono nevrotici, mentre i semplici cattolici sono per lo più felici e in pace con se stessi. Quindi le opinioni dei primi sono false, quelle dei secondi sono vere”. Anche se l’osservazione è corretta, il ragionamento basato su di essa è assurdo.
È come dire: “Dici che c’è un incendio in cantina. Ne sei sconvolto. Siccome sei sconvolto, è chiaro che l’incendio non c’è”. L’agnostico, lo scettico, è nevrotico, ma ciò non implica una filosofia falsa; implica la scoperta di fatti ai quali egli non sa come adattarsi.
L’intellettuale che cerca di sfuggire alla nevrosi sfuggendo ai fatti agisce semplicemente in base al principio secondo il quale “nella beata ignoranza essere sapienti è follia”.
Quando credere nell’eterno diventa impossibile, e resta solo il misero surrogato di credere nel fatto di credere, gli uomini cercano la felicità nelle gioie temporali. Ma per quanto possano sforzarsi di seppellirlo nel profondo della loro psiche, sono ben consapevoli del fatto che queste gioie sono precarie e brevi.
La conseguenza è duplice.
Da un lato c’è l’angoscia di poter perdere qualcosa, per cui la mente passa nervosamente e avidamente da un piacere all’altro, senza trovare riposo e soddisfacimento in alcuno di essi.
Dall’altro la frustrazione di dover continuamente perseguire un bene futuro in un domani che non arriva mai, e in un mondo in cui tutto si deve disintegrare, porta gli uomini a un atteggiamento del tipo: “In ogni caso, a che pro?”.
Ne consegue che la nostra è un’epoca di frustrazione, ansia, agitazione, abitudine agli ‘stimolanti’. In qualche modo dobbiamo afferrare ciò che possiamo e mentre lo possiamo, e far tacere la consapevolezza che tutta la faccenda è vana e senza senso.
Questi ‘stimolanti’ per noi sono l’alto tenore di vita, l’eccitazione violenta e complessa dei sensi che li rende sempre meno sensibili e quindi bisognevoli di sempre maggiore eccitazione.
Imploriamo la distrazione — un panorama di cose da vedere, suoni, fremiti e vellicazioni in cui ammassare quante più cose possiamo nel minor tempo possibile.
Per mantenere questo ‘standard’ la maggior parte di noi si assoggetta di buon grado a una vita che per lo più consiste nel fare lavori uggiosi per guadagnare il denaro necessario a cercare sollievo dalla noia in intervalli di febbrile e costoso piacere.
Riteniamo che questi intervalli siano la vera vita, il vero scopo al cui servizio è necessario il male del lavoro. Oppure pensiamo che la giustificazione di questo lavoro stia nel tirar su una famiglia per continuare a fare le stesse cose, al fine di tirare su un’altra famiglia… e così via ad infinitum.
Questa non è una caricatura. È la semplice realtà di milioni di vite, tanto comune che non occorre descriverla nei particolari, salvo a far notare l’ansia e la frustrazione di quanti vi si assoggettano non sapendo che altro fare.
Ma che cosa dobbiamo fare?
Sembra che vi siano due alternative.
La prima è scoprire, in un modo o nell’altro, un nuovo mito o risuscitarne in modo convincente uno vecchio. Se la scienza non può provare che Dio non esiste, possiamo cercare di vivere e agire in base alla semplice eventualità che, in fin dei conti, possa esistere. Pare che in questa scommessa non ci sia niente da perdere perché, se la morte è la fine, non sapremo mai di avere perduto. Ma è chiaro che questa non sarà mai una fede vitale, perché di fatto ci limitiamo a dire: “Dal momento che tutta la faccenda è comunque vana, facciamo finta che non lo sia“.
La seconda è affrontare fieramente il fatto che la vita è “un racconto narrato da un idiota”, e fare di essa ciò che possiamo, servendoci della scienza e della tecnologia in quanto di meglio esse ci possono offrire nel nostro viaggio dal nulla al nulla.
Ma queste non sono le uniche soluzioni.
Possiamo cominciare con l’ammettere tutto l’agnosticismo di una scienza critica. Possiamo riconoscere francamente di non possedere alcun fondamento scientifico per credere in Dio, nell’immortalità personale o in qualsiasi tipo di assoluto. Possiamo astenerci completamente dal cercare di credere, prendendo la vita così com’è, e nulla più.
Da questo punto di partenza c’è ancora un’altra maniera di vivere che non richiede né mito né disperazione.
Ma esige un’integrale rivoluzione nei nostri ordinari, consueti modi di pensare e di sentire.
La cosa straordinaria di questa rivoluzione è che essa rivela la verità dietro i cosiddetti miti della religione e della metafisica tradizionali.
Rivela non già delle credenze, ma delle realtà di fatto che corrispondono — in modo inatteso — alle idee di Dio e della vita eterna.
Vi è motivo di supporre che una rivoluzione del genere sia stata la fonte originaria di alcune tra le maggiori idee religiose, stando con esse in un rapporto di realtà a simbolo e di causa a effetto.
L’errore comune dell’ordinaria pratica religiosa è di scambiare il simbolo con la realtà, di guardare il dito che indica la via e succhiarlo per trarne conforto invece di seguirlo.
Le idee religiose sono come le parole: servono a poco e spesso portano fuori strada se non conosciamo la realtà concreta alla quale rimandano.
La parola ‘acqua’ è un utile mezzo di comunicazione tra quanti conoscono l’acqua.
Accade la stessa cosa per quanto riguarda la parola e l’idea chiamata ‘Dio’.»
(Da: “La saggezza del dubbio”, Alan W. Watts)
– Alan W. Watts (macrolibrarsi.it)
– Alan Watts – Amazon
– Alan Watts – Wikipedia