Interessanti riflessioni sull’arte della meditazione formulate da Chandra Livia Candiani. Adattarsi con ingegno alle nuove situazioni che via via possono verificarsi nel corso della vita non significa, per forza di cose, assumere un atteggiamento perdente, tutt’altro. Cito, a tal proposito, Charles Darwin: “non è la specie più forte a sopravvivere e nemmeno quella più intelligente, ma la specie che risponde meglio al cambiamento”. Meditare è diventare consapevoli tout court e quindi consentire all’intelligenza implicita di regolarsi al meglio.
«Ho letto una storia Sufi: «Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva più uscirne. L’asino continuò a ragliare sonoramente per ore, mentre il proprietario pensava al da farsi. Infine, il contadino prese una decisione crudele: concluse che l’asino era ormai molto vecchio e che non serviva più a nulla, che il pozzo era ormai secco e che in qualche modo bisognava chiuderlo. Non valeva pertanto la pena di sforzarsi per tirare fuori l’animale dal pozzo. Al contrario, chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino.
Ognuno di loro prese un badile e cominciò a buttare palate di terra dentro al pozzo. L’asino non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase zitto. Il contadino allora si decise a guardare verso il fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. A ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, in poco tempo, l’asino riuscì ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo, oltrepassare il bordo e uscirne trottando».
Meditare non è cercare vie d’uscita, ma piuttosto vie d’entrata. E questo che fa l’asino. Entra nella sua situazione, sente la disperazione, grida, poi accoglie quello che sta succedendo, non ne resta sommerso, non è vittima della situazione, si scrolla di dosso la terra e quella stessa terra diventa la sua risorsa.
Il mondo è pieno di persone che danno ricette per disfarsi di qualsiasi cosa ci opprima, per non sentire o entrare in un’illusione anestetizzante. La pratica della consapevolezza, invece, insegna a stare, a entrare in intimità con quello che ci accade, e il paradosso è che questa intimità è impersonale. Non restiamo invischiati nell’autonarrazione, l’intimità della meditazione è contatto con il tessuto dell’esperienza, con la percezione diretta e non mediata dai concetti di quanto accade, del suo impatto su di noi. E questa giusta vicinanza ci permette di arrivare non più a una reazione ma a una risposta. Non ci confina in una sorridente passività, ma anzi, l’accoglienza di quel che ci accade porta con sé l’energia di una giusta azione che si stacca da noi quando il tempo è maturo, e va nel mondo.
Meditare ha la stessa radice di medicina, è cura e prendersi cura. La parola pali per meditazione è bhâvanâ, causativo del verbo essere, dunque portare a essere, ossia coltivare. Si tratta di coltivare la mente-cuore. In pali, sono una parola sola: citta. E già questo fa avvertire la portata della differenza tra la nostra cultura occidentale di pensiero dissezionante e separativo e una cultura della non separatezza, del nesso. Noi abbiamo due stereotipi a cui badare per non cadere in equivoci depistanti: che la meditazione sia cogitazione e che la meditazione sia sospensione di qualsiasi impatto sensoriale e psichico e immersione in un dolce nulla.
Meditare non è nemmeno una tecnica, ma un’arte. Dell’arte quindi ha il rischio, l’improvvisazione, lo studio e la dimenticanza dello studio, la dedizione, la leggera e misurata follia, la precarietà, la vocazione, l’invasione nella vita quotidiana, la spellatura. Noi conosciamo nei riflessi e nelle bucce, sbucciandoci. Seguendo una Via bisogna rischiare la pelle. Se la meditazione non dilaga nella vita quotidiana, se non sfida quello che chiamiamo “il mio carattere” , se non comprendiamo che tutto è meditazione, entrare in casa, uscire di casa, fare le scale, mettersi, togliersi le scarpe, cucinare, parlare, mangiare, dormire, lavorare, fare l’amore, riduciamo la meditazione a una stampella, una protesi che acquieta un tantino la nostra vita che resta sempre la stessa, centrata sull’io.»
[ Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“ ]
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– Chandra Livia Candiani (macrolibrarsi)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Chandra_Livia_Candiani