La tradizione Zen ha sempre comunicato le sue verità più profonde attraverso racconti apparentemente semplici, ma carichi di significato. Questi brevi episodi, spesso paradossali, sfidano la nostra logica ordinaria per aprire spiragli di comprensione diretta. Un macellaio che afferma di vendere solo carne eccellente può diventare occasione di risveglio, mentre bruciare una statua sacra rivela l’essenza oltre la forma. L’arte marziale si apprende non con la fretta, ma attraverso anni di paziente attenzione alle attività quotidiane. Ogni storia, con la sua immediatezza, ci invita a guardare oltre le apparenze, a trovare l’essenziale nel banale, a riconoscere che la vera maestria nasce dalla presenza mentale in ogni gesto. Questi insegnamenti senza tempo continuano a parlarci oggi, offrendo chiavi per vivere con maggiore autenticità e profondità, sia che pratichiamo meditazione, sia che affrontiamo le sfide di ogni giorno.
Racconti Zen – vari
«Camminando in un mercato, Banzan colse un dialogo tra un macellaio e un suo cliente. “Dammi il miglior pezzo di carne che hai” disse il cliente.
“Nella mia bottega tutto è il migliore” ribattè il macellaio. “Qui non trovi un pezzo di carne che non sia il migliore”.
A quelle parole Banzan fu illuminato.»
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«Un maestro zen si era fermato, durante un viaggio, in un tempio.
Poiché faceva freddo, per non morire congelato, aveva preso una statua di legno del Buddha e le aveva dato fuoco.
Il custode del tempio, vedendo le fiamme, si era svegliato ed era accorso: credeva che si trattasse di un incendio.
Quando vide quel che succedeva, fu sconvolto dal sacrilegio. “Che cosa hai fatto?” gridò. “Hai bruciato il corpo del Buddha!”
Il maestro prese un bastone e si mise a frugare tra le ceneri.
“E ora che cosa fai?” gli domandò il custode.
“Cerco le ossa del Buddha.”
“Quali ossa? Non vedi che è una statua di legno?”
“Allora, per favore, portami un altro Buddha da bruciare.”»
* * *
“Hyakujo, il maestro cinese di Zen, ancora all’età di ottant’anni conservava l’abitudine di lavorare coi suoi allievi, tenendo in ordine i giardini, sarchiando il terreno e potando gli alberi.
Ai suoi allievi dispiaceva che il vecchio maestro faticasse tanto, ma poiché sapevano che sarebbe stato inutile consigliargli di smettere, gli nascosero gli attrezzi.
Quel giorno il maestro non volle mangiare. Non mangiò nemmeno l’indomani e nemmeno il giorno seguente. « Forse è arrabbiato perché gli abbiamo nascosto gli attrezzi» immaginarono gli allievi. «Sarà meglio che li rimettiamo al loro posto».
Così fecero, e quel giorno stesso il maestro lavorò e mangiò come prima. La sera li istruì:
«Chi non lavora non mangia».”
* * *
«Matajuro Yagyu era il figlio di un famoso spadaccino. Suo padre, convinto che l’attitudine del figlio fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria, lo disconobbe. Così Matajuro andò sul Monte Futara e là trovò il famoso spadaccino Banzo. Ma Banzo confermò il giudizio del padre. «Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia guida?» domandò Banzo. «Ti mancano i requisiti indispensabili ».
«Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un maestro?» insistette il giovane.
«Il resto della tua vita» rispose Banzo. «Non posso aspettare tanto» disse Matajuro. «Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo ci vorrà? ».
«Oh, dieci anni, forse» disse Banzo addolcendosi.
«Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui» continuò Matajuro. « Se lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?».
«Oh, forse trent’anni» rispose Banzo.
«Ma come!» disse Matajuro. «Prima hai detto dieci anni, e ora trenta! Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest’arte nel tempo più breve!».
«Be’,» disse Banzo «allora dovrai restare con me settant’anni. Un uomo che ha tanta fretta di ottenere dei risultati raramente impara alla svelta».
«E va bene» dichiarò il giovane, comprendendo infine che si gli stava rimproverando la sua impazienza. «Accetto».
Matajuro ebbe l’ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare mai una spada. Cucinava per il suo maestro, lavava i piatti, gli rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza che si parlasse mai di scherma.
Passarono tre anni. Matajuro continuava a lavorare. Pensando al proprio avvenire era triste. Non aveva ancora cominciato a imparare l’arte alla quale aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno.
L’indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt’a un tratto gli saltò di nuovo addosso.
Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati. Non c’era giorno, non c’era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo.
Imparò così in fretta che la faccia del suo maestro era raggiante di sorrisi. Matajuro divenne il più grande spadaccino del paese.»
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