L’autore esplora il concetto del “suono del silenzio”, un ronzio percepibile quando la mente è tranquilla. Questo suono può essere utilizzato come oggetto di meditazione, aiutando a focalizzare l’attenzione e a osservare ciò che è sempre presente e immutabile.
Sumedho sottolinea l’importanza di non attaccarsi ai pensieri o alle emozioni che sorgono durante la meditazione. Invece, suggerisce di osservare con gentilezza e pazienza, riconoscendo la natura transitoria di tutte le cose (anicca), la sofferenza (dukkha) e l’assenza di un sé permanente (anatta). L’atteggiamento corretto e la comprensione retta sono fondamentali per una pratica meditativa efficace.
In sintesi, il “suono del silenzio” è un punto di riferimento per la meditazione, che aiuta a lasciar andare dolcemente le condizioni mentali senza attaccarsi ad esse o aspettarsi risultati specifici.
«Quando la mente è tranquilla, ascoltate, sentirete una specie di ronzio, il cosiddetto “suono del silenzio”. Che cos’è? È un suono prodotto dall’orecchio o è un suono esterno? È prodotto dalla mente, dal sistema nervoso o cosa? Sia quel che sia, è sempre lì, e si può usare in meditazione come oggetto a cui rivolgere l’attenzione.
Prendendo atto che tutto ciò che sorge passa, cominciamo a osservare ciò che non sorge e non passa ed è sempre presente. Se cominciate a pensare a quel suono, a dargli un nome, a pretendere di ricavarne qualcosa, è chiaro che lo state usando nel modo sbagliato. È solo un punto di riferimento a cui rivolgersi quando si giunge ai confini della mente, a ciò che alla nostra osservazione appare come l’estremo limite della mente. Quindi da quella posizione si può cominciare a osservare. Potete pensare e contemporaneamente ascoltare il suono (nel caso cioè in cui pensiate deliberatamente); se invece vi perdete nei pensieri lo dimenticate e non lo udite più.
Quindi, se vi perdete nei pensieri, non appena ve ne accorgete riportate l’attenzione a quel suono e ascoltatelo a lungo. Laddove prima eravate trascinati via dalle emozioni o da preoccupazioni o dagli impedimenti, ora potete praticare contemplando con gentilezza, con molta pazienza, quella particolare condizione della mente in quanto anicca, dukkha, anatta, e poi lasciarla andare. È un lasciar andare dolce, sottile, non un rifiuto violento delle condizioni. Quindi ciò che più conta è l’atteggiamento, la retta comprensione.
Non aspettatevi nulla dal suono del silenzio. C’è chi si esalta, pensando di aver raggiunto o scoperto chissà che, ma anche questa è di per sé una condizione creata attorno al silenzio. È una pratica molto serena, non eccitante; usatela con abilità e dolcezza per lasciar andare, piuttosto che per attaccarvi all’opinione di aver raggiunto qualcosa! Se c’è un ostacolo alla meditazione, è proprio l’impressione di averne tratto un qualche vantaggio!»