[segue da] Seconda e ultima parte dell’Introduzione al Buddhismo del venerabile Bhikkhu Bodhi (monaco buddista Theravada), in occasione della prima celebrazione ufficiale del Vesak del 2000 alle Nazioni Unite. Come abbiamo già accennato nella prolusione alla sezione precedente, la nobile via del Buddha è descritta con una precisione e un’autorevolezza davvero degne di nota. Non mancano altresì puntuali richiami storici. Suggeriamo a chiunque voglia conoscere – sia per motivi culturali che prettamente spirituali – il Buddhismo, di leggere i presenti appunti con la massima attenzione. Siamo certi che ne trarrà degli ottimi benefici.
L’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA: IL SUO FINE
Chiedersi il perché della così rapida diffusione dell’insegnamento del Buddha tra tutti gli strati sociali dell’India nordorientale, significa sollevare una domanda non soltanto di interesse storico ma rilevante oggi anche per noi. Viviamo infatti in un periodo in cui il Buddhismo sta esercitando un forte ascendente su un numero crescente di persone, sia in Oriente che in Occidente. Sono convinto che il notevole successo del Buddhismo e la sua attuale forza d’attrazione siano principalmente interpretabili alla luce di due fattori: il primo è il fine dell’insegnamento e il secondo è la sua metodologia.
Quanto al fine, il Buddha ha formulato il suo insegnamento andando direttamente al cuore del problema cruciale dell’esistenza umana – il problema della sofferenza – e lo fa senza fondarsi su miti e misteri che sono così caratteristici del fenomeno religioso. Egli, inoltre, promette che coloro che seguiranno fino in fondo il suo insegnamento potranno conoscere qui ed ora la più alta felicità e pace. Tutte le altre preoccupazioni che esulano da ciò, come dogmi teologici, sottigliezze metafisiche, rituali e canoni devozionali, sono accantonate dal Buddha in quanto irrilevanti allo scopo immediato: la liberazione della mente dai legami e dagli impedimenti.
Questa impostazione pragmatica del Dhamma è chiaramente illustrata dalla formula con cui il Buddha sintetizzò il suo programma di liberazione, ossia le Quattro Nobili Verità:
1) la Nobile Verità che la vita implica sofferenza
2) la Nobile Verità che la sofferenza sorge dall’attaccamento
3) la Nobile Verità che la sofferenza cessa con la rimozione dell’attaccamento
4) la Nobile Verità che esiste un sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza.
Il Buddha non soltanto fa della sofferenza e dell’emancipazione dalla sofferenza il punto focale del suo insegnamento, ma affronta questo problema in un modo che rivela un grande discernimento psicologico. Egli rintraccia le radici della sofferenza nella nostra mente, dapprima nell’avidità e nell’attaccamento, e poi ancora un gradino più indietro, nell’ignoranza, una inconsapevolezza primordiale dell’autentica natura delle cose. Dato che la sofferenza si origina nella mente, è proprio nella mente che la cura deve essere portata a termine, dissipando i difetti mentali e le illusioni, per mezzo della visione profonda della realtà. Il punto da cui parte l’insegnamento del Buddha è la mente non illuminata, preda di afflizioni, preoccupazioni e angosce; il punto d’arrivo è la mente illuminata, beata, radiante e libera.
Per colmare la distanza tra il punto iniziale e quello finale del suo insegnamento, il Buddha offre un percorso chiaro, preciso e praticabile, articolato in otto fattori. Si tratta, naturalmente, del Nobile Ottuplice Sentiero. Il Sentiero comincia con 1) retta visione delle verità fondamentali dell’esistenza, e 2) retta intenzione di intraprendere la disciplina. Poi prosegue con i tre fattori di 3) retta parola, 4) retta azione e 5) retti mezzi di sussistenza, per finire con i tre fattori relativi alla meditazione e allo sviluppo mentale, ossia 6) retto sforzo, 7) retta consapevolezza e 8) retta concentrazione. Quando gli otto fattori del sentiero sono tutti sviluppati fino alla loro piena maturità, il discepolo penetra con visione profonda la natura autentica dell’esistenza, e raccoglie i frutti del sentiero, cioè perfetta saggezza e incrollabile liberazione della mente.
LA METODOLOGIA DELL’INSEGNAMENTO
Gli aspetti metodologici dell’insegnamento del Buddha sono modellati su quello che è il suo fine. Una delle caratteristiche più attraenti, strettamente correlato al suo orientamento psicologico, è l’enfasi posta sulla fiducia in se stessi. Per il Buddha, chiave d’accesso alla liberazione sono la purezza mentale e la corretta comprensione, con il conseguente rifiuto dell’idea di una possibilità di salvezza delegata a qualcun altro. Il Buddha non rivendica per sé un qualsiasi stato divino, né si professa personalmente un salvatore. Preferisce chiamarsi una guida e un maestro, che indica la via che il discepolo deve seguire.
Dal momento che la saggezza o visione profonda costituisce il principale strumento per l’emancipazione, il Buddha chiede sempre ai suoi discepoli di seguirlo sulla base della comprensione personale, piuttosto che di una cieca ubbidienza o di una fede acritica. Egli invita i cercatori ad investigare il suo insegnamento ed esaminarlo alla luce della loro personale razionalità ed intelligenza. Il Dhamma o Insegnamento è esperienziale, qualcosa da essere praticato e visto, non una professione di fede verbale cui bisogna meramente credere. Chi intraprende la pratica del sentiero sperimenta un senso crescente di gioia e pace, che si espande e si approfondisce secondo l’avanzare di passaggi chiaramente indicati.
L’aspetto più sorprendente dell’insegnamento originario è la sua chiarezza cristallina. Il Dhamma è aperto e luminoso, semplice ma profondo. Combina purezza etica e rigore logico, visione elevata e coerenza con i fatti di un’esperienza vissuta. Sebbene la penetrazione profonda nella verità proceda per via graduale, l’insegnamento si dipana da principi che, non appena cominciamo ad impiegarli come linee guida per la riflessione, risultano di immediata evidenza. Ciascun gradino che viene compreso pienamente, conduce naturalmente a più profondi livelli di realizzazione. Poiché il Buddha si occupa del più universale di tutti i problemi umani, il problema della sofferenza, egli ha fatto del suo insegnamento un messaggio universale, rivolto a tutti gli esseri umani esclusivamente in ragione della loro umanità. Aprì le porte della liberazione a persone di ogni estrazione dell’antica società indiana, a bramini, principi, mercanti e contadini, persino ad umili fuoricasta. Come parte del suo progetto universalistico, il Buddha aprì l’accesso al suo insegnamento anche alle donne. E’ proprio questa dimensione universale del Dhamma ad averlo messo in condizione di diffondersi oltre i confini dell’India, e ad aver fatto del Buddhismo una religione mondiale.
Alcuni studiosi hanno dipinto il Buddha come un mistico fuori dal mondo, totalmente indifferente ai problemi della vita quotidiana. Tuttavia, una lettura scevra di pregiudizi dell’antico canone buddhista può mostrare l’insostenibilità di tale accusa. Il Buddha insegnò non solo una via contemplativa per monaci e monache, ma anche un codice di nobili ideali, che fosse di guida agli uomini e alle donne che vivono nel mondo. In effetti, il successo del Buddhismo sulla più ampia scena religiosa indiana è in parte spiegabile tenendo conto del nuovo modello reso disponibile per quelli tra i suoi seguaci che erano capifamiglia, il modello cioè dell’uomo e della donna ordinari, che combinano una vita familiare attiva e responsabilità sociali con un saldo impegno a mantenere i valori radicati nel Dhamma.
Il codice etico prescritto dal Buddha per i laici consiste di Cinque Precetti, che richiedono l’astenersi dall’uccidere, dal rubare, da un comportamento sessuale scorretto, dalla parola menzognera e dall’uso di sostanze intossicanti. La chiave di lettura in positivo di quest’etica è rappresentata dalle qualità interne del cuore corrispondenti a queste regole di disciplina, ossia amore e compassione per tutti gli esseri viventi, onestà nelle relazioni con gli altri, fedeltà ai propri impegni coniugali, parola veritiera, e sobrietà della mente. In aggiunta all’etica individuale, il Buddha predispose linee guida per genitori e bambini, mariti e mogli, datori di lavoro e lavoratori, concepiti per promuovere una società connotata da armonia, pace e buona volontà a ogni livello; egli inoltre illustrò ai sovrani quali fossero i loro doveri verso i sudditi. Questi discorsi fanno del Buddha un abile pensatore politico, che ha ben compreso come lo stato e l’economia possono fiorire soltanto qualora chi detiene il potere dia la prevalenza al benessere delle persone più che ai propri interessi privati.
IL PARINIBBANA E IL PERIODO SUCCESSIVO
Il terzo grande evento della vita del Maestro commemorato dal Vesak è il suo parinibbana o trapasso. La storia degli ultimi giorni della vita del Buddha è narrata con particolari vividi e commoventi nel Mahaparinibbana Sutta. Dopo un attivo ministero di quarantacinque anni, all’età di ottanta anni il Buddha si accorse che la sua fine era vicina. Perfino sul letto di morte, rifiutò di indicare un successore, ma disse ai monaci che il Dhamma stesso sarebbe stato la loro guida, dopo la sua morte. Ribadì ai discepoli, sopraffatti dal dolore, l’inflessibile legge secondo cui l’impermanenza domina su tutti i fenomeni condizionati, incluso il corpo fisico di un illuminato. Invitò i suoi discepoli a chiedere chiarimenti sulla dottrina e sul sentiero, e trasmise loro l’urgenza di impegnarsi diligentemente per raggiungere lo scopo. Poi, perfettamente tranquillo, trapassò nell’“elemento Nibbana, non lasciando alcuna traccia della sua esistenza condizionata”.
Tre mesi dopo la morte del Buddha, cinquecento dei suoi discepoli illuminati tennero una conferenza a Rajagaha, con l’intenzione di raccogliere i suoi insegnamenti e preservarli per i posteri. Questa compilazione di testi trasmise alle future generazioni una versione codificata della dottrina, su cui fare affidamento come guida. Durante i primi due secoli dopo il parinibbana del Buddha, la sua trasmissione religiosa continuò lentamente a propagarsi, anche se la sua influenza rimase per lo più confinata al Nordest dell’India. In seguito, nel III sec. a.C., si verificò un evento che mutò le sorti del Buddhismo e lo mise nella posizione di affermarsi come religione universale. Il re Asoka, terzo sovrano della dinastia Maurya, dopo una sanguinaria campagna militare che lasciò sui campi di battaglia migliaia di persone uccise, si convertì appassionatamente al Buddhismo, per dare sollievo alla sua coscienza addolorata. Intravide nel Dhamma l’ispirazione per una politica sociale costruita sulla giustizia invece che sull’uso della forza e dell’oppressione, e proclamò la sua nuova politica in forma di editti, inscritti su rocce e colonne disseminate sulla superficie del suo impero. Pur seguendo il Buddhismo personalmente, Asoka non cercò di imporre la propria fede agli altri, ma promosse la diffusa concezione indiana del Dhamma come legge di giustizia, che reca felicità e armonia nella vita quotidiana ed una rinascita positiva dopo la morte.
Sotto il suo patrocinio, i monaci tennero un concilio nella capitale del regno, in cui decisero di inviare missioni buddhiste attraverso il subcontinente indiano e oltre, fino alle regioni confinanti. La più fruttuosa di esse, nei termini della storia buddhista posteriore, fu la missione a Sri Lanka, condotta dal figlio di Asoka, il monaco Mahinda, che fu presto seguito dalla figlia di Asoka, la monaca Sanghamitta. I due principi portarono a Sri Lanka la forma theravada di Buddhismo, ancora oggi predominante.
In India, l’evoluzione del Buddhismo avvenne in tre fasi successive, che sono diventate le sue tre principali forme storiche. Il primo stadio vide la diffusione dell’insegnamento originario e la frammentazione dell’ordine monastico in circa diciotto scuole, discordanti su questioni dottrinali di importanza secondaria. Di esse, l’unica a sopravvivere fu la scuola theravada, che già prima si era radicata in Sri Lanka e probabilmente anche in altre zone dell’Asia sudorientale. Qui poté fiorire in relativo isolamento, al riparo dai cambiamenti che stavano interessando il Buddhismo nel subcontinente. Oggi, il Theravada, discendente del Buddhismo originario, è prevalentemente praticato in Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Cambogia e Laos.
A partire dal I sec. a.C. circa, emerse gradualmente una nuova forma di Buddhismo, che i suoi sostenitori chiamarono Mahayana, il Grande Veicolo, in contrasto con le scuole precedenti, che furono definite Hinayana o Piccolo Veicolo. I mahayanisti elaborarono il concetto di “carriera del bodhisattva”, ritenuto a questo punto l’ideale buddhista universale, e proposero un’interpretazione radicale della saggezza come visione profonda nella vacuità o suññata (skt. shunyata), la natura ultima di tutti i fenomeni. Le scritture mahayana hanno ispirato profondi sistemi filosofici, formulati da pensatori brillanti quali Nagarjuna, Asanga, Vasubandhu e Dharmakirti. Ai comuni devoti i testi mahayana parlavano di buddha e bodhisattva celesti, che potevano venire in aiuto del fedele. Nella sua fase iniziale, nel corso dei primi sei secoli dell’era cristiana, il Mahayana si propagò in Cina e da lì in Vietnam, Corea e Giappone. In queste terre il Buddhismo indusse la nascita di nuove scuole, più congeniali alla mente estremo-orientale rispetto all’originale indiano. La più nota tra esse è il Buddhismo Zen, oggi ampiamente rappresentato in Occidente.
In India, probabilmente verso l’Ottavo secolo, il Buddhismo conobbe l’evoluzione in quella che è la sua terza forma storica, chiamata Vajrayana, il Veicolo di Diamante, basato su testi esoterici noti come Tantra. Il Buddhismo vajrayana accolse le prospettive dottrinali del Mahayana, ma le arricchì di rituali magici, simbolismi mistici, e complesse pratiche di yoga, concepite per accelerare la via verso l’Illuminazione. Il Vajrayana si diffuse dall’India settentrionale al Nepal, al Tibet e alle altre regioni himalayane; oggi è il tratto dominante del Buddhismo tibetano.
Aspetto considerevole della diffusione del Buddhismo nel corso della sua lunga storia è la sua capacità di conquistarsi il favore di intere popolazioni ricorrendo esclusivamente a mezzi pacifici. Il Buddhismo si è sempre diffuso con i suoi precetti e il suo esempio, mai con la forza. Lo scopo della propagazione del Dhamma non è stato quello di convertire, ma di mostrare ad altri la via verso la pace e la felicità autentiche. Ogni volta che gli abitanti di una nazione o di una regione hanno adottato il Buddhismo, questo è divenuto per loro fonte di uno stile di vita completo, molto più che una semplice religione. Ha ispirato grandi opere di filosofia, letteratura, pittura e scultura, comparabili a quelle di qualsiasi altra cultura. Ha modellato istituzioni sociali, politiche ed educative; è stato di guida a governanti e cittadini; ha dato forma alla morale, ai costumi e alle convenzioni che regolano la vita dei suoi seguaci. Mentre le espressioni particolari della civiltà buddhista differiscono ampiamente, dallo Sri Lanka, alla Mongolia, al Giappone, esse sono tutte pervase da una sottile ma inconfondibile fragranza che le rende distintamente buddhiste.
Nel corso dei secoli, in seguito alla scomparsa del Buddhismo in India, gli aderenti alle varie scuole buddhiste sono vissuti in totale isolamento gli uni dagli altri, a stento consapevoli della reciproca esistenza. Ma sin dalla metà del XX sec., tuttavia, buddhisti appartenenti a tradizioni eterogenee hanno incominciato ad interagire ed hanno imparato a riconoscere la comune identità buddhista. In Occidente, attualmente, per la prima volta dopo il declino del Buddismo indiano, coesistono nella medesima regione geografica seguaci dei tre principali “veicoli”. Questa stretta affiliazione potrà portare a risultati ibridi e forse a stili di Buddhismo ancora nuovi, diversi da tutte le forme tradizionali. Il Buddhismo in Occidente è ancora troppo giovane per permettere predizioni a lungo termine, ma possiamo essere certi che il Dhamma è qui per restarvi ed interagirà con la cultura occidentale, per contribuire, si spera, al reciproco arricchimento.
L’ATTUALITA’ DEL MESSAGGIO DEL BUDDHA
In quest’ultima parte della mia conferenza, mi piacerebbe discutere, molto brevemente, della rilevanza dell’insegnamento del Buddha in questa nostra era, visto che ci troviamo sulla soglia di un nuovo secolo e di un nuovo millennio. Ciò che trovo particolarmente interessante è che il Buddhismo può fornire intuizioni e pratiche utili ad un’ampia gamma di discipline – dalla filosofia e psicologia alla terapia medica e all’ecologia – senza richiedere a coloro che intendono impiegarne le risorse l’adozione del Buddhismo come religione integrale. Vorrei qui portare l’attenzione esclusivamente sulle implicazioni dei principi buddhisti nell’elaborazione della politica degli stati.
Nonostante gli enormi progressi compiuti dal genere umano nella scienza e nella tecnologia, progressi che hanno sensazionalmente migliorato la qualità della vita in molti modi, ci ritroviamo ancora a confrontarci con problemi globali che si fanno beffa dei nostri più determinati tentativi di risolverli all’interno di schemi preordinati.
Tra questi problemi sono incluse le esplosive tensioni regionali di carattere etnico e religioso; la proliferazione continua di armi nucleari; il disprezzo per i diritti umani; il divario dilagante tra ricchi e poveri; il traffico internazionale di droghe, donne e bambini; il depauperamento delle risorse naturali della terra; e il saccheggio ambientale. Da una prospettiva buddhista, quando riflettiamo su questi problemi in maniera globale, ciò che più ci colpisce è il loro carattere essenzialmente sintomatico. Al di là della loro diversità esterna, sembrano varie manifestazioni di una radice comune, di una malattia spirituale profonda e nascosta che infetta il nostro organismo sociale. Questa radice comune la si può sinteticamente caratterizzare come una ottusa insistenza a collocare gli interessi personali, ristretti e di breve portata (ivi inclusi gli interessi di raggruppamenti etnici e sociali cui ci si trova ad appartenere) al di sopra del bene a lungo termine della più ampia comunità umana. Non è possibile rendere conto adeguatamente della moltitudine dei malesseri sociali che ci affliggono senza gettare luce sulle potenti pulsioni umane che sono ad essi sottostanti. Troppo spesso, queste pulsioni ci spingono ad inseguire finalità che dividono, limitano, e che possono persino essere, in ultima analisi, autodistruttive.
Per districarci da tale groviglio, l’insegnamento del Buddha ci offre due considerevoli strumenti d’aiuto: il primo è la concreta analisi dell’origine psicologica della sofferenza umana, e il secondo è il sentiero di addestramento etico e mentale, dettagliatamente elaborato, che viene proposto come risolutivo. Il Buddha spiega che le radici nascoste dell’umana sofferenza, nel dominio personale e sociale delle nostre esistenze, sono i tre fattori mentali denominati “le radici non salutari”, vale a dire avidità, avversione e illusione. L’insegnamento buddhista tradizionale dipinge le tre radici non salutari come le cause della sofferenza individuale, ma secondo una visione ampliata, possiamo considerarle ugualmente come la fonte della sofferenza sociale, politica ed economica. Con il prevalere dell’avidità, ecco che il mondo viene trasformato in un mercato globale, dove le persone sono ridotte allo stato di consumatori, addirittura di merci, e le risorse vitali del nostro pianeta vengono depredate senza considerazione per le generazioni future. Con il prevalere dell’avversione, ecco che le diversità nazionali ed etniche divengono terreno di coltura del sospetto e dell’inimicizia, esplodendo in violenza e cicli infiniti di vendetta. La illusione sostiene le altre due radici insane con convinzioni erronee e ideologie politiche, elaborate per giustificare comportamenti motivati da avidità e avversione.
Se mutamenti nelle strutture sociali e nel comportamento sono indubbiamente necessari per controbilanciare le molte forme di violenza così diffuse nel mondo d’oggi, cambiamenti di questo tipo non saranno però sufficienti ad inaugurare un’era di pace autentica e di stabilità sociale. Parlando da una prospettiva buddhista, vorrei dire che ciò di cui c’è più bisogno, al di sopra di ogni altra cosa, è una rinnovata modalità di percezione, una consapevolezza universale che possa farci contemplare gli altri come non essenzialmente diversi da noi stessi. Per quanto difficile possa essere, dobbiamo imparare a disidentificarci dalla voce insistente del proprio interesse egoico, ed elevarci ad una prospettiva universale, secondo la quale il benessere di tutti appare tanto importante quanto il proprio bene. Vale a dire, dobbiamo liberarci dalle attitudini egocentriche ed etnocentriche cui siamo legati in questo momento, ed abbracciare un’”etica universo-centrica”, che assegni priorità al benessere di tutti.
Una simile etica universale dovrebbe essere modellata su tre linee guida, antidoti alle tre radici non salutari: 1) dobbiamo superare l’avidità dello sfruttamento con una generosità globale, con un atteggiamento di aiuto e cooperazione, 2) dobbiamo sostituire l’odio e il senso di vendetta con un atteggiamento di gentilezza, tolleranza e perdono e 3) dobbiamo riconoscere che il nostro mondo è un insieme interdipendente ed interconnesso, al punto che un comportamento irresponsabile in un qualsiasi suo punto comporta, potenzialmente, ripercussioni dannose ovunque.
Queste linee guida, tracciate secondo l’insegnamento del Buddha, possono costituire il nucleo di un’etica globale, che tutte le grandi tradizioni spirituali della terra potrebbero agevolmente sottoscrivere.
Alla base dello specifico contenuto di un’etica globale si trovano alcune qualità del cuore che dobbiamo cercare di praticare sia nella nostra vita personale sia nei comportamenti sociali. Le principali sono la gentilezza amorevole e la compassione (metta e karuna). In virtù della gentilezza amorevole, riconosciamo che proprio come ognuno di noi aspira a vivere nella felicità e nella pace, così tutti gli esseri che ci sono simili desiderano vivere nella felicità e nella pace. In virtù della compassione riconosciamo che come ognuno di noi detesta il dolore e la sofferenza, così tutti gli altri detestano il dolore e la sofferenza. Una volta compreso questo nucleo di sentire comune che condividiamo con tutti, tratteremo gli altri con la stessa gentilezza e cura con cui vorremmo essere trattati noi. Ciò deve applicarsi tanto a livello comunitario quanto nelle relazioni interpersonali. Dobbiamo imparare a percepire le altre comunità come essenzialmente simili alle nostre, meritevoli degli stessi benefici che vorremmo per il nostro gruppo di appartenenza.
Questo appello per un’etica universale non parte da idealismo etico o da un pio desiderio, ma poggia su solide basi pragmatiche. A lungo andare, allargare i nostri angusti interessi egoici a cerchi progressivamente più ampi coincide con il compromettere, nel tempo, il nostro reale interesse; infatti l’adozione di un approccio di questo tipo contribuisce alla disintegrazione sociale e alla devastazione ecologica, segando così lo stesso ramo sul quale siamo seduti. La subordinazione degli angusti vantaggi personali al bene comune significa, alla fine, rafforzare il proprio bene reale, che dipende in così ampia parte dall’armonia sociale, dalla giustizia economica, e dalla sostenibilità ambientale.
Il Buddha dice che di tutte le cose del mondo la mente è quella dotata della più potente capacità d’influenza, sia nel bene che nel male. La pace genuina tra le genti e le nazioni nasce dalla pace e dalla buona volontà nei cuori degli esseri umani. Una pace simile non si può conquistare meramente per mezzo del progresso materiale, dello sviluppo economico e dell’innovazione tecnologica, ma richiede un processo di maturazione morale e mentale. È soltanto trasformando noi stessi che possiamo trasformare il nostro mondo nella direzione della pace e dell’amicizia. Ciò significa che se il genere umano intende convivere su questo pianeta, che diventa sempre più angusto, la sfida inevitabile che si profila è la comprensione e il dominio di sé.
È su questo punto che l’insegnamento del Buddha si fa specialmente calzante, anche per chi non è pronto ad abbracciare pienamente la totalità della fede e della dottrina religiosa buddhista. Nella sua diagnosi dei difetti mentali come cause soggiacenti all’umana sofferenza, l’insegnamento ci rivela le radici nascoste dei problemi individuali e collettivi. Proponendo un sentiero pratico di addestramento morale e mentale, l’insegnamento ci offre un rimedio effettivo per affrontare i problemi mondiali nell’unica sede in cui essi sono a noi accessibili in via diretta, ossia nelle nostre menti. Entrando nel nuovo millennio, l’insegnamento del Buddha ci mette a disposizione le linee guida di cui abbiamo bisogno per fare del nostro mondo un luogo più pacifico e congeniale in cui vivere, indipendentemente dalle convinzioni religiose personali.
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