Nel ritmo incessante della vita moderna, trovare un momento di calma può sembrare un’impresa ardua. Eppure, la chiave per conquistare uno stato di serenità profonda risiede in qualcosa di semplice e naturale: il respiro. Attraverso pratiche come ânâpâna-sati, ovvero l’attenzione consapevole al flusso dell’aria che entra ed esce dal corpo, è possibile coltivare una mente più lucida e centrata. Questo approccio non richiede strumenti complessi o conoscenze elaborate, ma solo la volontà di osservare ciò che già accade dentro di noi. Il respiro diventa così un ponte tra il corpo e la mente, un mezzo per calmare le tempeste emotive e sviluppare una maggior presenza mentale. Con il tempo, questa pratica consente di abbandonare gradualmente gli schemi mentali legati all’attaccamento e all’ego, aprendo la strada a una pace interiore autentica e duratura. Non si tratta di raggiungere obiettivi esterni, ma di riscoprire la quiete che già abita in noi.
Il seguente breve brano, che riporto ai fini della discussione sulla meditazione, mi sembra ottimo. I punti di vista che esprime sono piuttosto classici, ma proprio per questo penso sarebbe utile esaminarli ed approfondire.
Respirare … aria di liberazione – Renato Emanuele
Ânâpâna-sati: l’attenzione al respiro come pratica meditativa
«Uno dei metodi di meditazione maggiormente adottati nella tradizione buddhista è quello denominato ânâpâna-sati: letteralmente, «consapevolezza dell’inspirazione e dell’espirazione»; in altri termini, costante attenzione rivolta verso la sensazione dell’aria che penetra e fuoriesce attraverso le narici. A prima vista, sembrerebbe qualcosa di insignificante, quasi una banalità: in fondo, nient’altro che l’osservazione del consueto processo respiratorio, il quale si svolge in modo autonomo, giorno e notte, senza alcun bisogno di una particolare vigilanza tale da trasformare una semplice funzione fisiologica in strumento idoneo a realizzare uno stato di calma mentale e di chiara consapevolezza delle caratteristiche autentiche dei fenomeni. Al contrario, costituisce una tecnica talmente diffusa nei paesi di tradizione buddhista, da far sorgere la convinzione che si tratti del nucleo centrale di una prassi meditativa che ha assunto una molteplicità di espressioni proprio a partire dal suddetto fondamento.
La ragione di tale preminenza assunta dalla meditazione sul respiro potrebbe consistere nel fatto che il processo respiratorio è intimamente correlato a stati psico-fisici, al punto che sarebbe possibile intuire la condizione mentale e fisica di un individuo osservando, semplicemente, il suo modo di respirare: respiro irregolare, a scatti, pesante, con cicli di breve durata sarebbe un indizio di irrequietezza, tensione, stanchezza, forte emotività; viceversa, respirazione regolare, con ritmo armonico, profonda, rivelerebbe calma mentale, equilibrio interiore, consapevolezza del corpo vissuto come docile strumento pronto a eseguire le direttive della volontà.
Entrare nelle dimensioni più profonde della pratica di ânâpâna-sati significa immergersi in una realtà dove tutte le percezioni ordinarie del nostro organismo psicofisico si trasformano in stato di coscienza non più condizionato da una preminenza dell’attività concettualizzante, ovvero dell’alternanza emozionale attrazione-rifiuto. Sorge, dunque, una consapevolezza in grado di contemplare un evento (il flusso respiratorio) senza alcuna esigenza di acquisire qualcosa di vantaggioso, né di sfuggire all’attualità del momento presente (qui e ora), in vista di traguardi più gratificanti sotto il profilo dell’ordinario «principio del piacere».
La pratica meditativa richiede un atteggiamento preliminare molto diverso dalle consuete aspettative che sollecitano a intraprendere altro genere di attività: non bisogna cercare vantaggi immediati, poteri particolari, affermazione delle proprie qualità personali e così via. Forse questo fatto potrebbe sembrare poco comprensibile, dato che l’assenza di una motivazione fondata sulle aspettative dell’ego prefigura un atteggiamento psicologico in netto contrasto con le ordinarie aspirazioni del vivere quotidiano. Invero, inizialmente tutte le persone che si accostano alla meditazione sono animate da una notevole dose di egocentrismo e da varie aspettative, talvolta poco realistiche. Tuttavia, quanto più si procede sul sentiero, tanto più si comprende che tutti gli scopi strettamente personali di carattere acquisitivo rappresentano sottoprodotti del «senso dell’io»: «io» voglio diventare… «io» voglio raggiungere… «io» voglio ottenere… L’io, cioè, molla per un po’ le mete ordinarie dell’esistenza mondana per dedicarsi con identico fervore a obiettivi considerati di tipo più elevato; ma, in fondo, si tratta soltanto di un ego più ambizioso: un ego che non si accontenta di consumare ogni bene materiale possibile ovvero di spassarsela tra gli svaghi della società edonistica, bensì pretende persino una specie di supremazia rispetto ai comuni individui della nostra società: «io» diventerò un grande yogin!
L’atteggiamento corretto, viceversa, dovrebbe essere quello di accostarsi alla meditazione non con l’ambizione di acquisire qualcosa, bensì con l’intenzione di abbandonare le istanze fondate sul senso dell’ego.Tutte le pretese dell’io sono velleità illusorie alimentate da una mente offuscata dall’ignoranza (avidyâ), dalla brama e dall’avversione. La meditazione è, in primo luogo, una forma di terapia contro la mente «malata» dell’uomo «normale»: una mente, cioè, impregnata di attaccamenti, avversioni, rivalità competitive, ansia, timori di vario genere, aspettative irrealistiche e senso di autostima esagerato.
Tornando quindi alla pratica ânâpâna-sati, è opportuno precisare che, secondo la tradizione più antica – quella della scuola Theravâda – l’osservazione consapevole del respiro procede attraverso quattro fasi, a loro volta suddivise in tetradi, per un totale di sedici stadi concentrativi diversificati, quanto alla tipologia.
Prima fase: 1) concentrare l’attenzione sulla respirazione lunga; 2) concentrare l’attenzione sul respiro più breve; 3) notare l’interdipendenza tra stato corporeo e forma di respirazione; 4) calmare il flusso del respiro.
Seconda fase: 5) consapevolezza della sensazione di piacere psico-fisico generato dalla respirazione calma e sottile; 6) notare lo stato di beatitudine indotto dalla respirazione; 7) osservare l’interdipendenza tra sensazioni piacevoli e stato mentale; 8) attenuare gradualmente, fino alla scomparsa, la dipendenza della condizione mentale dalle sensazioni di piacere e beatitudine.
Terza fase: 9) prendere coscienza delle diverse condizioni mentali (concentrazione, distrazione, calma, irrequietezza, etc.), mantenendo l’attenzione al respiro; 10) allietare la mente, tramite il respiro regolare, ritmico, prolungato, sottile; 11) concentrare la mente: cioè abbandonare qualunque tipo di interferenza di tipo discorsivo e ogni genere di sensazione-emozione capace di indurre alterazioni nello stato di stabilità concentrativa; 12) liberare la mente dai fattori di turbamento.
Quarta fase: 13) associare l’attività respiratoria alla consapevolezza dell’impermanenza (ogni respiro nasce e muore come ogni altro fenomeno); 14) collegare l’osservazione del respiro a uno stato interiore di distacco da tutto ciò che ci vincola tenacemente alla realtà mondana; 15) coordinare il respiro con la consapevolezza del fatto che abbandonare attaccamenti, avversioni e illusioni significa estinguere la sofferenza; 16) abbinare al respiro quella «rinuncia» ai legami che sancisce la fine di ogni dolore.
Il suddetto schema riassume nei termini sintetici il tema del fondamentale Sutta (discorso) del Buddha relativo alla meditazione sul respiro (Ânâpâna-sati Sutta).
Come si evince dalla progressione degli stadi, l’ultima fase mette in luce una condizione psicologica di distacco e di non coinvolgimento nelle situazioni mondane generatrici di stati negativi per la pace mentale. Una delle più tenaci illusioni, sostenuta dal senso dell’ego, infatti, consiste nel ritenere che gli ordinari scopi della vita e le attrattive della nostra società consumistica possano garantire una condizione di duratura felicità.
La meditazione ridimensiona progressivamente le pretese e le illusioni dell’io, evidenziando, tramite stati di coscienza sempre più lucidi, che la serenità della mente e il vero benessere dipendono da un processo di purificazione consistente nell’abbandono di emozioni negative quali bramosia, odio, avidità, orgoglio etc.
In effetti, accostarsi alla pratica meditativa richiederebbe già, come fattore preliminare, un certo mutamento nel modo di pensare e di relazionarsi al mondo; un cambiamento di prospettiva che dovrebbe avere il suo risvolto perfino nelle abitudini del linguaggio, dato che i verbi che indicano appropriazione e possesso, quali avere, ottenere, guadagnare, conquistare etc., denotano, già di per sé, una tendenza mentale orientata verso l’accrescimento della propria importanza personale connessa ai progetti di espansione e di acquisizione elaborati dall’ego.
È bene precisarlo con estrema chiarezza, anche a costo di scoraggiare le attese ottimistiche di coloro che si accostano alle pratiche meditative con la speranza di risolvere problemi personali più di carattere psicologico che non di tipo spirituale: la calma mentale, la beatitudine, la pace non rappresentano conquiste dell’ego; anzi, fino a quando sarà il senso dell’io a orientare le aspirazioni, i suddetti stati di coscienza non potranno manifestarsi in alcun modo.
Secondo l’insegnamento buddhista, consapevolezza significa, innanzitutto, riconoscimento del carattere essenzialmente illusorio della comune idea di io: un semplice gioco di mâyâ. Allora, praticare la meditazione con l’intenzione più o meno recondita di ampliare i confini dell’ego, assumendo un atteggiamento di complicità con le sue smodate pretese – voglio… il nirvâna, voglio… la beatitudine… o altro… – significa compiere un passo falso sin dall’inizio della pratica e, di conseguenza, orientarsi verso una direzione del tutto opposta a quella indicata da qualunque genere di percorso spirituale.
Sarebbe necessario quindi entrare nella sala di meditazione in uno stato di preliminare consapevolezza del fatto che le afflizioni e i gravami della nostra esistenza derivano, in primo luogo, da scelte fondate su illusioni e attaccamenti generati dal senso dell’io e del mio; questo atteggiamento propedeutico favorirebbe la tendenza mentale al distacco da tutto, anche da quello a cui siamo più tenacemente abbarbicati. Dunque, parola d’ordine: mollare la presa, abbandonare la dipendenza da ciò che ci alletta; svuotare la mente da ogni brama; fare spazio all’interno: niente smanie di conquista, niente teorizzazioni di tipo metafisico-spirituale, niente ansia di sperimentare stati estatici e psichedelici. Bene! A tal punto l’io è stato mortificato abbastanza, adesso c’è posto per una mente libera dalle usuali aspettative di conquistare, raggiungere, acquisire quello che non si possiede ancora. Finalmente ci si siede in postura meditativa, si nota con estrema concentrazione il flusso dell’aria che arriva e se ne va; non si desidera nulla, non si spera nulla, non si rimpiange nulla, non ci si spazientisce per il fatto che non giunge qualche stato straordinario di coscienza, si dimentica la propria storia personale. Siamo semplicemente qui e ora: l’aria penetra nelle narici e fuoriesce con uguale naturalezza. C’è soltanto un sentimento di abbandono totale al prâna che ci sostiene in ogni attimo della nostra vita: non occorre altro, la calma è interamente in questo lasciare ogni rivendicazione dell’ego.
La fine della seduta di meditazione formale, per tornare all’ordinaria condizione di vita, ci riconsegna alla dimensione del quotidiano: le necessità pratiche, il lavoro, la famiglia, i rapporti sociali. Il mondo ci attende, quasi impaziente di tornare a contaminare la nostra mente, ancora una volta, con il potere di mâyâ: i suoi allettanti richiami, le seduzioni degli svaghi e dei consumi, gli ammiccamenti innumerevoli che invitano a correre, per afferrare qualcosa, per accumulare, per diventare questo o quello. Ma la mente, ora, è più cauta, più vigile, non si lascia facilmente incantare dall’ultimo prodigio della tecnologia avanzata del terzo millennio.
Certamente non è facile mantenere la condizione di lucidità e concentrazione caratteristica della seduta formale, nelle mutevoli situazioni dell’esistenza quotidiana. D’altra parte, sottrarsi a ogni tipo di coinvolgimento mondano è un privilegio riservato a chi ha scelto un ideale monastico. Per tutti coloro che vivono in un normale contesto di relazioni sociali, caratterizzate da ruoli lavorativi e familiari, non rimane altra soluzione che quella di imparare a gestire le consuete situazioni esistenziali con mente libera da emozioni contaminanti quel senso di pace, benevolenza, compassione, equanimità caratteristico di un’individualità non intossicata dai veleni del samsâra. In altre parole: arte del saper vivere e morire in pace. Nessun coinvolgimento nella nevrosi collettiva dell’attuale società del benessere tecnologico-consumistico, nessuna risposta alle provocazioni del mondo esterno: tutela prioritaria di una condizione interiore di tranquillità, gioia, benevolenza e non attaccamento.»
[ Da: Il silenzio del Buddha. Misticismo e tradizione buddhista – Renato Emanuele ]
Renato Emanuele, nato nel 1941, ha insegnato filosofia e storia nei licei sino al 1989, anno in cui ha lasciato l’insegnamento dedicandosi allo studio delle tradizioni orientali, alla pratica meditativa samatha e vipashyanâ e alla guida di gruppi di meditazione. Ha pubblicato, per le edizioni Magnanelli, Sentieri orientali, Il silenzio del Buddha, e Samsâra.