Quando sento parlare di compassione mi trovo subito a mio agio, forse perché l’avverto sia come la conditio sine qua non della spiritualità che il suo vero approdo metafisico, ossia la propria realizzazione per eccellenza. Ma veniamo nello specifico di quanto sostiene nei seguenti appunti Tiffany Watt Smith. La prima questione è avvertire la compassione, esserne capaci, riuscire ad afferrare la dinamica esistenziale che sottende alle innumerevoli vicende personali, trascendere la coscienza soggettiva sino a realizzare la reciproca interdipendenza di ciascun essere senziente … Pensaci un po’, quando ti adoperi per aiutare qualcheduno in difficoltà, chi è che ne beneficia davvero?
«La compassione non è mai inclusa negli elenchi delle “emozioni universali”, ma potrebbe esserci, stando alla filosofa Martha Nussbaum. La maggioranza delle persone è in grado di accorgersi che qualcun altro sta soffrendo. L’impulso di alleviare quel dolore può essere percepito come una reazione di pancia – anche se, nel corso degli anni, i tradimenti ci hanno reso disincantati, o le continue richieste degli altri ci hanno sfinito. Magari vediamo un senzatetto che fa l’elemosina, ma non siamo sicuri che dargli qualche soldo sia la maniera migliore di aiutarlo. Un amico che piange sempre più forte ogni volta che voi cercate di consolarlo potrebbe farvi pensare: «Sto peggiorando le cose?». Dentro di voi cresce il desiderio di aiutarlo, ma subito dopo arrivano i ripensamenti. Potreste fare di più, per lui? Offenderete quella persona, o la farete sentire sotto pressione? Forse lui si sta approfittando di voi? Non sorprende. allora, che in certi casi ci rifiutiamo di agire. quando l’azione stessa può portare con sé tanta confusione.
Per i buddhisti del Tibet, la condizione ideale per provare il desiderio di liberare una persona dalla sofferenza è una serena equanimità, unita a una silenziosa fiducia in sé stessi. Per molti di noi. tuttavia, la compassione è una materia molto più ansiogena.
L’idea per cui la compassione sia un’emozione rischiosa, persino pericolosa, è ben radicata nella tradizione cristiana occidentale. Uno dei primi testi in proposito fu scritto nel VI secolo da papa Gregorio Magno. «Quando vogliamo che una persona addolorata smetta di soffrire», scrisse, noi dobbiamo «abbandonare la nostra posizione eretta e piegarci verso di lei» e fare esperienza noi stessi della loro miseria. Gregorio paragonava la compassione – dal latino cum (con) e patior (sopportare) – e il desiderio di portare conforto al processo con cui vengono fusi insieme due pezzi di ferro. Così come il fabbro riscalda i pezzi di metallo finché si uniscono, la mente umana «si ammorbidisce» in un processo che Gregorio chiamava condescensio passionis, la “discesa in una sofferenza condivisa”. Perché una persona eserciti autentica compassione, quindi, è necessario portare allo scoperto lati molto vulnerabili di sé stessi: non è un’esperienza facile da sopportare.
Il rischio stava nel diventare troppo duttili. Gregorio ricordava per esempio la storia di Giobbe. Quando gli amici vengono a sapere delle sciagure di Giobbe – la morte dei suoi figli, i raccolti perduti, la perdita dei suoi terreni, la terribile malattia che l’ha colpito – viaggiano da molto lontano per venire a portargli conforto. Si stracciano le vesti, si coprono il capo di cenere e siedono per terra insieme a lui per sette giorni e sette notti, fino a quando Giobbe è pronto a parlare. Onorevoli intenzioni, stando a Gregorio. Ma gli amici si spingono troppo oltre. Alla fine di quei sette giorni, le loro menti sono annerite dal dolore, la loro fede è stata messa a dura prova, anche se quella di Giobbe rimane intatta. Per Gregorio, quindi, la vera compassione significava mantenersi in equilibrio. Solo gli uomini più saggi riescono ad andare incontro al dolore di qualcuno senza diventare storditi e indifesi a loro volta: quella famosa “perdita di sensibilità verso la sofferenza” di cui oggi si parla molto nell’ambito delle professioni di aiuto.
La compassione può mettere a dura prova il nostro equilibrio emotivo, ma le ricerche hanno dimostrato che ne vale la pena: non saranno soltanto gli altri a trarre vantaggio dalle vostre azioni, anche voi conoscerete un miglioramento netto in termini di benessere e appagamento. I ricercatori del Centro per la compassione e l’altruismo dell’Università di Stanford suggeriscono di prendere esempio dal buddhismo e praticare regolarmente [la mettā,] una forma di meditazione sulla compassione. Questo significa stare seduti in silenzio per un po’, prima concentrandosi sul provare compassione verso sé stessi, e poi, aprendo cerchi concentrici, verso le persone care, gli amici, gli sconosciuti, e persino verso le persone che non vi piacciono o che in passato vi hanno ferito. A quelli che amano le soluzioni più concrete, i ricercatori consigliano di sviluppare abitudini che rendano più facile realizzare atti compassionevoli. Tenete in tasca qualche spicciolo per comprare del cibo a chi vive per strada, o un piccolo regalo per qualcuno che sta passando una brutta giornata. Liberate del tempo per andare a trovare un anziano vicino di casa. Dedicate un’ora alla settimana al fare beneficienza.
E quando ci si trova di fronte all’amico sconvolto dalla perdita di un figlio, o a uno studente il cui padre è in punto di morte? Stando a Mandy Reichwald, un’ex infermiera che per gran parte della sua vita si è occupata di prestare assistenza ai malati terminali e alle loro famiglie, la vera compassione sta nel sostenere le persone così che possano trovare la forza in sé stessi. Reichwald mette in guardia contro l’istinto a buttare le braccia intorno a una persona per darle conforto, perché questo toglie loro l’abilità di raccogliere le proprie forze e prepararsi a quello che deve ancora arrivare. Ascoltate. Mostrate interesse. State molto fermi. State attenti a non mettervi a piangere. «Non lo state facendo per voi, lo state facendo per loro.» Se la situazione diventa troppo per voi, siate onesti. Reichwald sostiene che usare frasi come «Sono sconvolto da quello che hai appena detto, ho bisogno di un minuto per riprendermi», oppure anche solo «Che cosa triste» possa avere un effetto sorprendente. È proprio quando ci sentiamo sopraffatti che possiamo ritirarci nella sicurezza della pietà, piegando la testa e tenendo a distanza le persone che soffrono. L’onestà è una risposta efficace. Anche solo telefonare a qualcuno e ammettere «Non so cosa dire, ma volevo sapere come stavi», è meglio che evitarlo del tutto.
Non è egoismo prendersi cura di se stessi in primo luogo; anzi, semmai, è il segno della vera, matura compassione. Perché quando siete sopraffatti dai problemi degli altri, non saprete — o non potrete — aiutarli. Reichwald dice che quando comincia a sentirsi un po’ troppo provata, a suonarle in testa come un allarme sono le istruzioni per un atterraggio d’emergenza che vengono ripetute all’inizio di un volo aereo: «Dovete prima indossare la vostra maschera a ossigeno, poi potrete aiutare gli altri a mettersi le loro».»
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