Già, cos’è il vero sé? La domanda è semplice, sorge spontanea e può esser formulata in tanti modi. Ad esempio, uno per tutti: chi sono io? L’indagine conduce a una sorta di ricerca introspettiva tesa a scoprire … ma forse sarebbe meglio dire: tesa a trovare … ciò che per sua natura non potrà giammai esser rinvenuto … E come mai? Perché è nelle pieghe della vita, nei risvolti degli accadimenti, celato nel manifesto, talora finanche logico. Oddio, tutte queste parole per rincorrere l’essenza! Credo proprio che Charlotte Joko Beck chiarirà in modo ben più semplice e diretto codesto inafferrabile, indefinibile, inconfutabile arcano!
«Ci sediamo in un ritiro di meditazione (sesshin) per scoprire chi siamo. Abbiamo una mente e un corpo, che non bastano a spiegare la vita. Shakespeare fa dire a Polonio: “Sii sincero con te stesso, e ne seguirà come la notte al giorno che non potrai esser falso verso nessuno”. Vogliamo scoprire noi stessi, il nostro vero sé. Possiamo farci un’idea di qualcosa che immaginiamo come il nostro ‘vero sé’, un’entità reale che fluttua da qualche parte. Partecipiamo alla sesshin per scoprire, per essere il nostro vero sé. Ma cosa diavolo sarà?
Se doveste definirlo, che parole usereste? Riflettete un attimo. Dove voglio arrivare? A una definizione come: il funzionamento di una persona svuotata di motivazioni egoistiche. Non è difficile capire come una persona del genere non sarebbe umana nell’accezione comune. Da un diverso punto di vista sarebbe totalmente umana, non però nel modo in cui usiamo pensare a noi stessi e agli altri. Questa persona sarebbe nessuno.
Nella lotta per la vita, vedendo i difetti nei rapporti con gli altri, con il lavoro o le nostre attività, uno degli errori più fuorvianti è l’idea: “Io sono in rapporto con questa persona, con questa situazione”. Se sono sposata interpreto la cosa come: “Io sono sposata con lui”. Finché dico: “Sono sposata con lui”, siamo in due, mentre il vero sé non è mai due. Il vero sé non conosce separazione. Anche se sembra che io sia sposata con lui, il vero sé, chiamiamolo l’infinito potenziale energetico, non ammette separazioni. Il vero sé si manifesta in forme diverse ma rimane essenzialmente unico, un solo potenziale energetico. Nel linguaggio convenzionale io sono sposata con te, io posseggo un Toyota, io ho quattro figli, ed è vero. Ma dobbiamo capire che non è la realtà. In realtà, non sono sposata con una persona, non posseggo una cosa: sono quella persona, sono quella cosa. Il vero sé non conosce separazione.
Bellissimo ma, in pratica, come fare con le reali difficoltà della vita? Tutti conosciamo la sfida rappresentata dal lavoro, dai figli, dai genitori e dai rapporti. Immaginiamo che sia sposata con un uomo molto difficile; non solo un po’, ma molto problematico. Immaginiamo che i nostri figli ne soffrano. Più volte ho detto che, quando soffriamo, dobbiamo diventare la sofferenza. È così che cresciamo. Ma come applicarlo in una situazione così difficile che tutti ne vengono colpiti? Che fare? Le variazioni sono infinite. Immaginiamo che il mio compagno sia uno studioso le cui ricerche richiedano tre o quattro anni in Africa, mentre il mio lavoro mi tiene qui. Cosa faccio? Oppure ho un lavoro di responsabilità che esige che mi trasferisca anche se i miei anziani genitori hanno bisogno di assistenza. Cosa faccio? Sono i problemi della vita. Non tutti i problemi sono così, ma anche difficoltà più piccole sono fonte di ansia e preoccupazione.
In ogni situazione la nostra dedizione non deve andare alla persona in quanto lui o lei, ma al vero sé. L’altro incarna il vero sé, ma c’è una diversificazione. In un gruppo, il nostro rapporto non è con il gruppo, ma con il vero sé del gruppo. Con ‘vero sé’ non intendo una qualche entità mistica che fluttua nell’etere; il vero sé non è niente, eppure è l’unica cosa che deve dirigere la nostra vita, il solo Maestro. Facciamo meditazione (zazen), partecipiamo a una sesshin all’unico scopo di conoscere il nostro vero sé. Senza questa comprensione, i problemi ci manterranno nella perplessità e non sapremo mai come agire. L’unica cosa da servire non è il maestro, un centro, il lavoro, il compagno o i figli, ma il vero sé. Come imparare a farlo? Non è facile, richiede tempo e perseveranza.
La pratica rivela il nostro scarso interesse per il vero sé e lo smisurato interesse per il piccolo sé. Ci appassioniamo per ciò che noi vogliamo, che noi pensiamo, che noi desideriamo, il nostro vantaggio, la nostra salute, il nostro benessere. Qui incanaliamo tutta l’energia. Una pratica intelligente illumina a poco a poco questa realtà. Non è né buona né cattiva: è così come siamo. Ma successive illuminazioni del nostro sforzo egoistico rivelano il dolore e l’estrema sofferenza che esso implica, così che forse possiamo mutare comportamento. E forse può aprirsi uno spiraglio su un diverso modo di vivere: il non sé.
In una situazione concreta, come serviamo il vero sé? Non esistono criteri stabiliti; a volte può essere un modo ruvido, assai poco gentile, e a volte il contrario. Può darsi che rinunci alla carriera a New York e mi dedichi ai vecchi genitori; o forse no. Nessuno, solo il mio vero sé può dirmi cosa fare. Se la pratica è maturata e ci ha condotto al punto di non ingannare più noi stessi, in quanto siamo in contatto con la reale esperienza, conosciamo l’azione compassionevole che va intrapresa. Se non siamo nessuno, se siamo il non sé (anche se non lo saremo mai completamente), la giusta azione diventa ovvia.
Tutti i rapporti hanno qualcosa da insegnarci; alcuni, anche se è triste, ci insegnano che devono finire. Può venire il momento in cui il modo migliore per servire il vero sé è andarsene. Nessuno può dirmi che cosa è meglio, nessuno lo sa salvo il mio vero sé. Non importa il parere della mamma o della zia, e nemmeno il mio parere. Un maestro ha detto: “La vostra vita non è affar vostro”. Affar nostro è la pratica, e la pratica è imparare a servire ciò che non possiamo vedere, toccare, gustare o odorare. In essenza il vero sé è un niente, eppure è il Maestro. Non intendo ‘niente’ in senso convenzionale; questo Maestro è un niente che è l’unica cosa. Se siamo sposati, non siamo sposati a un’altra persona ma al vero sé. Se insegniamo ai bambini, non stiamo insegnando ai bambini: stiamo esprimendo il vero sé in modo adatto alla loro età.
Tutto ciò può sembrare idealistico e remoto, eppure non passano cinque minuti che ci offre occasione di pratica: il contatto con una persona irritante, il piccolo scontro che amareggia, la sensazione che dovrebbero avere tanto ‘buon senso’ da non fare questo o quello, l’irritazione per mia figlia che ha promesso di telefonare e non l’ha fatto. Cos’è il vero sé in questi piccoli episodi? Noi non vediamo il vero sé, ma ci accorgiamo dei momenti in cui lo perdiamo. Possiamo essere consapevoli dell’irritazione, della stizza, dell’impazienza. Possiamo etichettare queste emozioni. Con pazienza, possiamo sperimentare la tensione che generano i pensieri. In altre parole, sperimentare ciò che frapponiamo fra noi e il vero sé. Se questa attenzione diventa la direzione primaria della nostra vita, serviamo il Maestro e accresciamo la comprensione di ciò che va fatto.
C’è un unico Maestro. Non sono io, né un altro, né Sabba Tizio o Guru Sempronio; nessun individuo è il Maestro. I vari Centri non sono che strumenti del Maestro; e così il matrimonio, i rapporti e ogni cosa. Per capirlo dobbiamo illuminare il nostro modo di essere non una, ma diecimila volte, dobbiamo puntare un riflettore sui nostri pensieri giudicanti nei confronti degli altri e delle situazioni. Dobbiamo diventare consapevoli delle nostre sensazioni, dei desideri, delle aspettative, del giudizio impietoso per un altro o per noi stessi: questa nuvola che oscura tutto. Siamo come seppie che secernono una nube di inchiostro per nascondere i guai che combiniamo. Al mattino, appena svegli, iniziamo a schizzare inchiostro. Che cos’è l’inchiostro? Le preoccupazioni egoistiche, che intorbidano l’acqua in cui viviamo. Una vita egoistica è una vita di problemi. Possiamo affermare che non ci piacciono le storie che vanno a finire male, ma in realtà le adoriamo. Qualcosa in noi è incantato dal nostro melodramma, e così ci attacchiamo a esso e ce ne lasciamo disorientare.
Una pratica corretta ci trasporta sempre più in quello spazio pulito e privo di teatralità in cui le cose sono appunto così come sono, semplici processi in atto. Un agire che non può provenire dall’egoismo. Sedere in una sesshin aumenta le nostre possibilità di passare periodi sempre più lunghi in quello spazio pulito. Abbiamo bisogno di pazienza, perseveranza e della postura. Dobbiamo essere imparziali e stare seduti. Il vero sé non è niente, è l’assenza di qualcos’altro. Assenza di cosa?»
(Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“)
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