Jessica è un nome di comodo. Non so perché, ma per me che la conobbi, mi sembra che le si addica davvero. Jessica era preda di un vizio, ma non intendo specificarlo. Il ricordo della sua bellezza mi attanaglia troppo. Mi aveva colpito? Sarebbe dir poco. Se Jessica diceva. “Ma dai, non lo vedi ch’è verde?”, ebbene il mio mondo si dipingeva di verde.
Poi un giorno mi chiese: “Vorrei uscirne fuori, mi aiuti?”. Senza pensarci su, senza che ci fosse nemmeno quella gran confidenza, l’abbracciai. E ho l’impressione, nonostante sia passata una vita, di stringerla ancora. Quel primo approccio fu, guarda caso, cruciale. Tutte le volte che la mia splendida, luminosissima amica si sentiva sull’orlo del bivio, mi cercava, mi veniva incontro – in guisa del tutto innocente, s’intende – senza nemmeno fiatare e si tuffava nell’animus che, a mia volta, le offrivo con gioia. Non so cosa provasse. I minuti correvano così veloci che un’ora poteva sembrare un istante. Per me, avvezzo alla meditazione, il mondo diventava univoco. Non c’era più distinzione, nessun me, nessun lei. Un giorno, uno qualunque, mi diede un bacio e sorridendo mi propose: “A domani”. Sapevo già che aveva superato la sua dipendenza, ne era uscita fuori e, di rimando, mi strappò le lacrime. Ma quell’indomani non giunse mai. Un pirata ubriaco la falciò sulla bici. A volte mi dispiace di più per quell’insulso che per quell’anima candida che, di tanto in tanto, mi volteggia commossa con l’ennesimo abbraccio di luce.