Poesia dedicata ai disoccupati, ai semi-emarginati, ossia ai buoni, quelli veri, non più avvezzi a lottare se non assuefatti a bersi un po’ di tutto, dalle frottole balzane sul loro futuro prossimo venturo a ogni sorta di fantasioso diktat moraleggiante. L’esortazione è di non darsi per vinti, né tanto meno di attendersi nulla da nessuno, ma di farsi valere con coraggio e volontà di cambiare, ossia di riscrivere senza più sotterfugi o escamotage di sorta le regole del gioco. Una società può dirsi civile solo se assicura il minimo per sopravvivere a tutti i suoi componenti. Sia ben chiaro che non si tratta né di socialismo annacquato, né di pietà o carità o compassione, ma di un principio che per il livello di cultura e consapevolezza attuali deve ritenersi fondamentale.
Ai disoccupati
Fior di menzogna
che circola senza ritegno,
senza fermarsi mai sino ad ottundere
finanche quel po’ di buona creanza
rimasta tra le genti che assistono passive,
senza reagire né più sorprendersi,
allo spettacolo indecente
che il teatrino degli aurighi sugli scanni
(della politica di vecchia maniera)
recita a tutto campo,
mentre i poveri illusi che vivono di stenti
tendono la mano tremula per coglier
le briciole che l’opulenza,
seppur con malanimo,
gli spiccioli che sì, poi gli dispensa.
E tu che mogio mogio
ti pieghi e poi raccatti la miseria,
solleva il capo che mai
nessuno che potesse dirsi Dio,
giammai lo volle.
Sollevalo e reagisci
a ciò che non è sorte,
ma solo cattiveria di chi
ci sguazza dentro e poi trafigge
colui che non ha nerbo
o è senza forze.