Non coloro che mancano di energia o che si astengono dall’agire, bensi’ coloro che si danno da fare senza aspettativa di remunerazione, raggiungono l’obiettivo della meditazione. La loro e’ vera rinuncia. (Bhagavad Gita 6:1)
Uno dei luoghi comuni più diffusi in quest’ultimo scorcio di probabile fine new age è l’idea che per meditare e, quindi, conseguire le più alte vette della consapevolezza, sia necessario: rilassarsi tout court, ossia rinunciare a combattere (la battaglia della vita); lasciar andare … e così via. Sennonché l’accettazione indiscriminata delle molteplici vicissitudini che una vita attiva e impegnata comporta non aiuta affatto a realizzare la spiritualità immanente, tantomeno ad aprirsi all’ineffabile onda amorevole che l’afflato trascendente suscita, richiama. Siffatte evenienze non sono una resa all’imperscrutabile, all’insondabile, al divino, bensì una vera e propria débâcle emotiva. Anche se lì per lì sembrerebbe che apportino benefici, rappresentano l’anticamera della confusione.
Per sublimare il vile piombo, ossia per riconoscere l’onnipresenza della gioia in tutto ciò che già ci circonda è essenziale l’auto-osservazione, rinunciare ai frutti delle proprie azioni e vivere una vita di segreta e ineffabile abnegazione nei riguardi del proprio stesso presente. Il paradiso è già qui, tra le pieghe dell’«ora». Ragion per cui ergiti, combatti e adoperati e reclama sempre una vita più degna. Dopodiché, allorquando ti sarai impegnato pacificamente con tutto te stesso, accadrà, ma in guisa del tutto spontanea, di accettare l’inalienabile e, stavolta sì, felicissima, risacca della vita. La vera ricompensa perverrà quando sarai capace, ad esempio, di meditare senza aspettative.