Nonostante queste riflessioni siano state formulate nel 2005, sono quanto mai attuali.
Durante un articolo precedente abbiamo argomentato sull’ambito di pertinenza della spiritualità. Ora potremmo considerare l’opportunità che un’organizzazione religiosa si dedichi alla politica.
Di tempo in tempo appare in questo mondo un uomo che ha visto la verità, completamente sveglio, benedetto dalla verità, traboccante di felicità, un maestro di saggezza e bontà: un buddha. Egli vede e conosce di prima mano e a fondo questo universo e, avendolo compreso, rende la sua comprensione accessibile ad altri. Egli annuncia la verità, buona nella sua origine, buona nel suo sviluppo e buona nel suo compimento. Egli fa conoscere una nuova vita, in tutta la sua pienezza. (Tevigga Sutta)
Quest’uomo ci presenta un modo di vedere o concepire il mondo più ampio, profondo, reintroduce la spiritualità. Per qualche tempo i suoi insegnamenti risultano chiari, ma ben presto subentrano gli interpreti istituzionali che ne normalizzano i suggerimenti. La sua pregnanza rivoluzionaria, utile o finanche indispensabile durante i primi frangenti espansivi, diventa successivamente un peso, un fastidio, un pericolo per ogni genere di prevaricazione.
Le verità originarie sono travisate e sostituite da una cornice ritualistica che si avvale, tra l’altro, di magnifiche quanto immaginifiche rappresentazioni artistiche. Come se non bastasse, quando il cuore dell’insegnamento è riformato, subentrano o si ripropongono taluni fattori quali ad esempio: l’uso politico della spiritualità; l’estrema ignoranza degli integralismi; la strumentalizzazione della miracolistica meno seria e di folklore che sfrutta l’umanissima sensibilità e fragilità, individuale e collettiva, verso dolore e sofferenza.
Sicché posporre la lunga serie d’istanze e compimenti vari concernenti giustizia ed equità sociale (effettiva e non subordinata), emancipazione culturale, … a futuribili paradisi ideali diventa quasi una prassi. Naturalmente non mi sto riferendo ad una religione in particolare, ma all’insieme delle consuetudini secolari pluriconsolidate nel loro complesso.
Religiosità, politica, pluralismo – 2° (12-12-05)
C’è un gran numero di persone stanche della commistione tra religioni e politica. E’ questa la vera combinazione promiscua. Quella da cui il Cristo, così come riportato dai medesimi Vangeli canonici, rifuggì chiaramente, ma che proprio tanti suoi presunti seguaci perseguono ad oltranza. La morale del Cristo si basava, palesemente, su scelte di coscienza personale e non sulle imposizioni pubbliche di uno Stato che si sostituiva, in tal guisa, alla consapevolezza etica individuale. Ciascuno ha la possibilità di attingere alla sorgente e scoprire, qui e adesso, il tesoro presente in ognuno di noi.
Se un’organizzazione religiosa vuol far politica, ne ha, senza dubbio, diritto. Tuttavia non si dovrebbe mai prescindere dal designare ciascuna attività con il suo nome. Il voler influire o guidare gli altrui comportamenti in base ad una determinata dottrina sociale è attività prettamente politica e non spirituale.
Un’opinione. La qualità spirituale della vita è, innanzitutto, percezione soggettiva e solo successivamente potrebbe divenire un conseguimento collettivo. Possiamo condividere le utopie, le illusioni, i sogni, ma la “chiarezza” è a disposizione di chiunque sappia o voglia guardare ciò che è davvero la vita.
Siamo alla ricerca o necessitiamo di speranze consolatorie? Ce ne sono a iosa, come il credere in un ideale prototipo di bontà, in un maestro da emulare, in un Dio salvifico e condiviso. Un padre – o una madre – buono e compassionevole che sappia, all’occorrenza, provvidenzialmente soccorrerci. E’ lecito confidare in tutto ciò?
Si, è comprensibile, fa parte della natura umana. Finanche la gente buddhista offre le proprie preghiere all’emblematica figura del Buddha.
Il problema non è nella Luce, nella Vita, nel Padre, ma nei suoi cosiddetti intermediari. Sono in costante disaccordo, ciascuno con le proprie piccole grandi verità. Visto e considerato il gran numero di sette religiose, mi chiedo, ci son tanti Padri, o qualche furbo di troppo?
Quando la spiritualità si organizza perde gran parte delle sue caratteristiche ideali per favorire e beneficiare quelle istituzionali. Le religioni organizzate che si richiamano a modelli ed esempi astratti, diventano fonti di conflitto, perdono la naturale propensione ad equità e giustizia e si trasformano in organismi ibridi che confondono e rimescolano politica e trascendenza.
Le religioni si scontrano tra di loro, accade, è sotto gli occhi di tutti. Ma la spiritualità non compete con nulla, non ha nemici. Semmai ricerca con indefesso slancio e rinnovata risolutezza ciò che unisce, accomuna, affratella.
Coloro che vedono scontri hanno già la guerra nel cuore, sono propensi a lottare per affermare la superiorità e universalità del loro ego a discapito della moltitudine di diseredati costantemente in aumento che si rivolgono, in Oriente come in Occidente, in cerca d’aiuto confidando nel presunto messaggio d’amorevole sollecitudine che le religioni così profusamente diffondono. Ma quando si scopre la vera natura del messaggio, poco o niente più che uno spot pubblicitario per camuffare avidità e sete di dominio, allora i più ne rimangono sconfortati, delusi. Saranno in molti a comprendere la differenza tra maestri e discepoli, tra capostipiti ed epigoni.
Interpretare il linguaggio dello spirito non è difficile, è amore! Ma se l’amore fosse davvero presente non ci sarebbero egoismi, ingiustizie, disuguaglianze. Certo, la sofferenza non si potrebbe eliminare del tutto, ciò nondimeno sarebbe sicuramente lenita.
Ci sono Stati che si proclamano credenti, ma la realtà dimostra ampiamente che si tratta solo di atteggiamenti simulatori. Qualche esempio: consentono di produrre e vendere armi tralasciando di selezionare adeguatamente gli acquirenti; favoriscono una certa parte soltanto del lavoro umano mercificando e precarizzando tutto il resto; parificano la vita animale a merce; approvano le rendite parassitarie; creano e investono risorse privilegiando le prospettive di crescita ad oltranza. Dove sono i criteri d’equità così enfaticamente e periodicamente annunciati, dov’è la giustizia? Tuttavia, se da una parte le prepotenze più eclatanti saranno pacificamente ripianate, lo sviluppo indiscriminato, dall’altra, depaupererà, inevitabilmente, il patrimonio che la natura ci ha così benevolmente e gioiosamente elargito. Un vero progresso dovrebbe procedere, al contrario, in direzione equa e qualitativa e non solo verso abusi sconsiderati. Ma equilibrio e qualità sono relativamente intangibili.
E se non v’è amore o compassione, considerata l’innegabile circostanza del reciproco sostegno e della mutua legittimazione tra i “poteri spirituali” e “temporali”, tra religioni organizzate e Stati, i risultati saranno solo perfette ipocrisie.
Vagheggiamenti
Per quanto dissimulino, trincerandosi dietro il ritualismo formale, i proclami solenni o il sussiego di ricercate prediche ad effetto, le religioni organizzate diventano, sovente, fenomeni socio-politici. Pur con tutta la stima e l’ammirazione possibili per lo spirito d’abnegazione quasi sempre dimostrato da buona parte dei rispettivi adepti, mi sembra si tratti di atteggiamenti arcaici legati ad un passato in cui la democrazia non esisteva ancora.
Confidiamo che le religioni si rendano disponibili a riconoscere la spiritualità implicita a questa splendida manifestazione di vita senza la contraddittorietà delle brame di potere, supremazia e possesso. Camuffarle o edulcorarle non serve più. D’altra parte anche il Cristo descritto nei vangeli denunciò già siffatto genere di ambiguità quando redarguì i mercanti nel tempio. La consapevolezza è soprattutto onestà. Ed è quanto basta.
Ci auguriamo che le religioni s’interessino tanto più di spiritualità, quanto meno di politica, privilegiando l’afflato universale a quello localistico, il fondamento etico a quello mitico, rifiutando le usuali prassi compromissorie. Certo, il loro potere sarà minore, ma i benefici sicuramente rilevanti.
Conclusione
La spiritualità individuale, scevra dal potere repressivo del finto moralismo, ma integra e autentica, non è utopia. La spiritualità è per sua natura esclusivamente soggettiva. Quando un’organizzazione spirituale ritiene, sia pur legittimamente, di dover contribuire a guidare una società, allora il suo iter diventa soprattutto politico.
Inneggiare alla famiglia? Certo, ma bisognerebbe magnificare prim’ancora la rettitudine, quella quisquilia, affatto relativa, che aiuterebbe, tra l’altro, a distribuire meglio l’occupazione nei gangli cruciali, e oramai persino nei ruoli meno strategici della società. Vero?
Ciò nondimeno, con ogni probabilità, quanto precede son tutte parole al vento perché quando gli assoluti ideologici e fideistici si traslano e applicano, dal campo spirituale a quello sociale, il risultato è, nel migliore dei casi, disorganico.
Grazie per la cortese attenzione