“Maestro, quand’è che mediterò? Mi spiego meglio. Quand’è che riuscirò a meditare di primo acchito, per il solo fatto di chiudere gli occhi ed entrare in raccoglimento? Ora come ora mi devo prodigare con mille e uno espedienti: assumere una determinata postura; fissare una certa ora; creare un’atmosfera adatta bruciando, ad esempio, dell’incenso o diffondendo nell’aria oli essenziali; curando l’alimentazione; recitando mantra; interiorizzando la mente con la concentrazione sulla fiamma di una candela (tratak).
Oppure osservando il respiro; roteando come un derviscio; praticando il ricordo di me stessa; fissando un muro bianco e via dicendo: Quand’è che potrò fare a meno di tutto ciò? Dio, anzi il Signore Buddha solo sa quanto vorrei liberarmene”, chiese la rana allo splendido e plurisecolare albero d’ulivo che da qualche tempo aveva adottato come insegnante.
L’ulivo, ovviamente, non disse nulla. E non rispose nemmeno la natura di cui la nostra cara amica rana zen era divenuta improvvisamente cosciente: l’erba erica se ne fregò perché indaffarata a giocare col vento; il coniglio selvatico cincischiò, perché lui, la meditazione, sapeva già cosa fosse, erano i suoi figli, la lotta per la sopravvivenza, l’impossibilità di poter fermarsi a riflettere.
“Eureka”, si disse d’improvviso la rana che nel frattempo aveva perseverato indefessa a cercare la risposta tutt’intorno. “Quando capirò davvero che pensare di continuo non serve a nulla, allora sarò in meditazione.