“Maestro, qual è la retta via?”, chiese la rana zen a colui che riteneva la propria luce. Ma stavolta l’insegnante sembrava quasi assente. Beh, più che assente sembrava distaccato. La rana gli sedette accanto, l’osservò. In un certo senso ne fece oggetto della sua contemplazione, ci meditò su e, immancabilmente, né fu contagiata.
La rana si rilassò di colpo. Si sentì avvolgere da un’atmosfera ovattata, lambire dalla risacca del silenzio e, infine, proiettata in una sorta di extra-spazio atemporale. Pur essendo a occhi chiusi percepì una volta di dimensioni galattiche punteggiata come non mai. Per non parlare dei colori, così vividi da non poterli nemmeno descrivere.
Tuttavia, dopo qualche minuto – o era trascorso di più? – la coscienza della rana ritornò a più miti propositi e si ritrasse di nuovo nell’esile, ipersensibile, quanto armonico corpicino di essere senziente di classe umanoide. Già, perché il termine “rana” era solo un epiteto attribuitole dalle sue permalose compagne.
L’umile allieva si guardò intorno. Per quanto libri, scaffali, cuscini, fossero tutti al loro posto e l’ambiente avesse un’aria senz’altro confortevole, mancava qualcosa. Certo, le vestigia di quel piccolo “tempio senza-nome” erano tutte intrise di pace, ma innegabilmente mancava qualcosa. Pensa e ripensa la rana non rivide più il suo maestro. Al suo posto c’era un semplice gatto che leggeva il libro dei sogni …