Negli antichi tempi c’era un vecchio monaco che, con la pratica diligente, aveva raggiunto un certo grado di chiaroveggenza. Il monaco aveva un novizio pressoché adolescente. Un giorno, il religioso, scrutando il volto del discepolo, intuì che il benamato sarebbe morto entro pochi mesi. Rattristato da questa visione, gli propose una lunga vacanza. Gli suggerì, all’uopo, di recarsi a trovare i genitori.
«Trattieniti tutto il tempo che vuoi – gli raccomandò il monaco – non aver fretta di tornare». Egli voleva, in tal guisa, far sì che nel momento fatidico il novizio si trovasse con la famiglia. Ma tre mesi dopo, con sua grande sorpresa, lo intravide risalir l’erto sentiero che – lambendo il versante della millenaria montagna – riconduceva al tempio. Allorché sopraggiunse, l’osservò attentamente e ravvisò che il prodigioso allievo sarebbe vissuto ben più di quanto non avesse incautamente previsto.
«Raccontami tutto quel che è successo mentre eri via» proferì, stupito, il vegliardo. Così il discente cominciò a narrare del suo viaggio giù dalla montagna. Riferì dei villaggi e delle città che aveva attraversato, dei fiumi che aveva guadato e delle montagne su cui si era arrampicato. Infine rievocò come si fosse imbattuto in una grande alluvione.
«Mentre cercavo un luogo adatto per attraversare – raccontò il discepolo – ho visto che una colonia di formiche era rimasta intrappolata su una piccola isola creata dall’esondazione. Mi sono sentito così attratto da quelle creature che ho afferrato il ramo di un albero e, senza tentennamenti, l’ho posto a ‘mo di ponte sull’acqua tra la terra asciutta e il formicaio. Le formiche non son punto filosofi. Senza farsi pregare hanno cominciato ad attraversarlo. Ho tenuto fermo il ramo finché non sono stato certo che tutte le provvide bestiole avessero raggiunto l’asciutto. Poi ho continuato il viaggio verso casa.»
«Ecco – pensò il vecchio tra sé – perché gli dèi hanno prolungato i suoi giorni!». Gli atti compassionevoli possono cambiare in meglio il destino; di contro, gli atti crudeli possono avere un’influenza nefasta».
(Adattamento di una parabola buddista)
Commento
La bontà d’animo, la solidarietà disinteressata, che non ha fini – tanto meno quello di un’eventuale ricompensa – viene sempre premiata.
La bontà è come il riflesso di un volto sulle acque chiare di una coscienza viepiù cristallina. Riverbera, e il rimando di luce reitera, sin quando il cuore non riesce ad accogliere il messaggio di gratitudine così repentinamente inoltrato: grazie fratello, sorella, ti sei soccorso da te, siamo uno!
Teoria? Ma quanti hanno davvero provato a esaudire le richieste d’aiuto più tacite senza nemmeno ribattere ciglio? La meditazione, prima o poi, ti conduce a questo: comincerai a sentire gradualmente te stesso negli altri e cercherai di lenire le altrui sofferenze prim’ancora che un’eventuale supplica d’aiuto ti venga persino rivolta.
Quindi la compassione – da non confondere con il sentimentalismo, e che non rappresenta nemmeno le ragioni dell’intelletto, ma che è il principio stesso, l’origine di qualunque aggregato impermanente, la consapevolezza della reciproca interdipendenza, l’afflato silente del Dio dai mille cuori – risponde sempre, restituendo proprio se stessa.
Mentre l’innocenza prevale, gli atti crudeli – a buon intenditor, poco o nulla d’aggiungere – hanno sempre un risvolto mefitico …