Sul viale che conduce al tramonto, la mezza via in cui difatti abitavo, seppur con qualche modesto intervallo, pressoché da sempre, regnava un’atmosfera di relativa calma. Il percorso – che si snodava tra numerosi villini in stile “mutuo perenne” – non conduceva, di fatto, da nessuna parte. Nella vita t’illudi spesso di star lì a conquistare questo o quello, ma in realtà rincorri solo te stesso. Poi, quando credi di averlo afferrato, raggiunto … È proprio ciò che, in effetti, mi accadde. Una moglie, qualche flirt virtuale, due o tre figli piovuti dal nulla. Sono incerto sul loro ammontare effettivo perché almeno uno era la fotocopia di un ex collega della mia fu consorte. Lei, costretta da uno spietato e crudele scherzo di natura a lasciare anzitempo questi lidi, schivò sempre i miei dubbi. Era brava, oddio quant’era brava. Riusciva a rendere l’amaro più incongruo come una soave straordinaria occasione. Gli ultimi mesi di vita, quando oramai si trascinava a stento nel suo miracoloso giardino adiacente l’uscio, m’irrideva, praticamente, su tutto. “Sei troppo serio”, diceva. Oppure: “Sei così scrupoloso che soffriresti comunque”. Ciò che in effetti intendeva è che avevo l’innata propensione a identificarmi con chicchessia. Io la chiamavo empatia, lei la definiva alienazione. Non so chi dei due avesse torto. Oppure lo so, ma non riesco ancora ad ammetterlo.
Lo sapete che gli abitanti di queste piccole multi-scatole dette altrimenti villini convivono spesso con un animale domestico? Ma sì che lo sapete. Perché lo dico? il mio, il nostro, anzi quello della mia fu anima gemella era un cane. E non un piccolo e affettuoso canino, ma un imponente pastore di nonsoché. Comunque bellissimo, ma così ingombrante che attraversare la sua cuccia di elezione preferita, il corridoio, era sempre un’impresa. Ebbene, ritrovarmi di punto in bianco con tre figli, un super-cane e una domestica, per giunta così carina e gentile da essere contesa praticamente da tutti, persino dai vicini, fu davvero un trauma. Per sopravvivere a questa situazione, io che fino a qualche mese prima ero tutto lavoro e relax, dovevo cambiare politica, intendo dire approccio esistenziale. Bene, ma come? Nelle immediate vicinanze, nei pressi del mio umile ufficio di provetto mestierante architetto perfettamente allineato ai più insulsi canoni del pensiero vigente, c’era un curiosissimo Tempio di matrice orientale con annessa una superba e al contempo modesta, provvidenziale oasi di verde. Ora, a vederli in foto, questi strani giardini zen era un conto, ma dal vivo ti sorprendevano profondamente. Quei gioiosi vialetti senza senso, quei lembi di sabbia che alternavano curiosissime rocce disposte a mo’ di statue, fiorenti spartiacque d’erba che si tuffavano in tre splendidi laghetti naturali, un incanto. Li ammiravi e smettevi di pensare. Eri ancora sulla benamata terra o non si trattava, invece, di una benefica oasi marziana spuntata dal nulla e in quel nulla destinata a dissolversi?
Mi presentai senza preavviso. Mio figlio, quello migliore, quello che non mi somigliava affatto, ma mi era – curioso scherzo del destino – caratterialmente più affine al punto da sentirlo un vero amico, forse persino un sostegno, mi aveva avvertito: “Dapprincipio ti sentirai perplesso”. E in effetti … Fui accompagnato, senza colpo ferire, senza cioè nessuna spiegazione, nella sala di meditazione. All’ingresso un monaco addetto mi chiese le scarpe, poi sparì. Mi fu indicato un cuscino – per l’esattezza uno zafu – su cui sedere secondo le mie possibilità fisiche. All’inizio lo trovavo ridicolo, poi – dato l’ambiente benevolo che conciliava soprattutto il sorriso – mi rilassai. Muri bianchi facevano da degna cornice a un parquet di costosissimo mogano. Mi scuso per il giudizio, ma la mia deformazione professionale – o mentale? – me lo impone. Poi, eccolo, lui, di primo acchito uno smilzo vecchietto, ma di fatto un vero maestro. Com’è che me ne accorsi? Non saprei, oppure sì. Lo guardavo e mi sentivo coinvolto, avvertivo l’inutilità di agitarmi e riposavo in me stesso. L’unica, ma sostanziale differenza con la mia veranda giardino è che nonostante percepissi la medesima atmosfera d’intrinseca quiete ero, via via, sempre più sveglio. Solo in seguito compresi come quel monaco non fosse null’altro che una sorta di catalizzatore dell’infinito.
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«Cari signori, lo scopo di questa relazione non è quello di descrivervi un Tempio, non è quello di propinarvi qualsivoglia suggestioni meditative, tanto meno trasmettervi una serie d’istruzioni per meditare. Quando mi suggerirono di partecipare a un “concorso d’idee” per una nuova “Casa della Meditazione” mi proposi – al di là dei più diffusi luoghi comuni attribuiti sia dal folklore che dall’immaginazione a siffatta stupenda e millenaria disciplina –; mi proposi di trovarne il vulnus, quindi il nucleo attorno a cui far ruotare l’ambaradan creativo; ma ora, finalmente, dopo mesi d’indomita ricerca introspettiva, credo di averlo rinvenuto.»
È proprio ciò che scrissi nei miei ultimi appunti, seduto su di una traballante panchina a metà strada tra il complesso gestito dagli ammirevoli, disarmanti monaci e la mia dozzinale, ma non per questo inefficiente, umile dimora. “Come procede?”, sembrò chiedermi il gatto del dirimpettaio che si era avvicinato quatto quatto e semi-speranzoso al mio super-angolo di mondo oramai in disuso.
L’angolo in cui mi rifugiavo d’abitudine era sostanzialmente vuoto. Né i miei figli, né tantomeno i ricordi riuscivano oramai a colmarlo. Non quindi l’affetto terreno che si era dimostrato solo passeggero, ma nemmeno l’immaginazione e ogni sorta di artificio consolatorio che m’illudevano, soltanto per pochi fuggevoli attimi, per farmi precipitare subito dopo nel tetro sconforto della dimenticanza. E anche se per via del mio carattere combattivo riuscivo a veleggiare nel mar di nessuno sulla rotta che non conduce a nulla, senza quindi affondare, non avevo una meta. Il viale, come i gatti, quindi il Tempio e quegli smilzi, semplicissimi monaci, ma pure i figli, così come l’intramontabile lapis da cui erano già scaturiti gli spazi vitali di così tante famiglie, era tutto ciò che mi restava. “Chiamalo poco”, sembrò dirmi l’ultimo scampolo di coscienza. Il risveglio poteva aspettare. Sì, ma che c’entra, ora, questo benedetto risveglio?
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Quando, dopo la relazione programmatica, cominciai a disegnare, mi sentii incredibilmente felice. Il lavoro lo conclusi in un battibaleno. Lo inoltrai al progetto-concorso per il quale l’avevo stilato e richiusi quel capitolo soddisfatto. Non l’avevo elaborato per vincere, tanto meno per essere citato. I miei limiti li conosco bene. Non sono altro che un grafico di quart’ordine che di tanto in tanto, dismesso l’elmetto di capo cantiere edile, ama giocare coi sogni. Quelli degli altri, perché i miei, frequentando pressoché giornalmente quegli strani monaci zen, li avevo esauriti. “Che male c’è a non avere più sogni?”, mi chiedevo confuso. “A non avere, se non per ragioni vitali, nessuna opinione su nulla? E sì che ti sei fuso”, pensavo. “Hai raggiunto quel benedetto capolinea”. Però poi, i figli, tutti e tre; la domestica che ammiccava di continuo mostrandomi, data l’insistenza, piuttosto maliziosamente, le escoriazioni al ginocchio, figuriamoci; il cane che ruggiva di gioia ogni volta che tornavo, stanco e impolverato; i colleghi, gli operai di questo o quel cantiere, mi riportavano sempre al presente. Finché un giorno non mi chiesi: “Ho mai smesso di dormire?”. Sì, perché i sogni, rielaborati quasi sempre in funzione dei bisogni, si riproponevano sine die, all’infinito.
Quando ricevetti la notizia non ci credevo nemmeno. La mia proposta era risultata tra le prime. Ora dovevo redigere il progetto esecutivo. Ma per me sarebbe stata una bazzecola. Io sono un operativo. Uno di quelli che agisce sul campo. Ciò di cui difetto è, invece, la creatività, l’inventiva. Sta di fatto che stavolta, avevo sovvertito i miei stessi pronostici. Come mi sentivo? Nulla di nulla. Quando ne parlai al mio presumibile maestro, quel piccolo monaco zen che mi guardava sempre sottecchi, non mi degnò più di tanto. Tuttavia lo colsi in fallo. Lo capii dal suo modo di camminare leggermente dinoccolato, era contento. O lo ero solo io e dipingevo di rosa tutto quanto? Di lì a poco mi risposai con la domestica e quasi quasi ricevetti più abbracci dai miei figli, nessuno escluso, che dalla suddetta. Il mio cane si convertì a una vera cuccia. Il lavoro procedette come sempre. La sera continuai a meditare nel Tempio e spero che tale sarà la mia vita fino al mio prossimo “risveglio”.
Sono sempre estasiata dalla tua scrittura, chiunque Tu sia. Non so come io mi sia imbattuta in Te, come io abbia acconsentito a ricevere newsletter – … – ma ogni volta che Ti leggo provo il piacere che solo l’articolarsi e susseguirsi di parole voluttuose, inusuali, musicalmente accostate con orecchio e senso estetico, riesce a darmi. Ti ringrazio. L.