Dimmi, quante volte ti sei illuso di aver trovato il bandolo risolutivo della tua matassa esistenziale?
Quando la rana zen non conosceva ancora che pochi rudimenti della spiritualità s’imbatté in una pagina web sulla meditazione camminata. L’autore ne decantava i pregi – sarà pur vero? – e ne illustrava gli approcci essenziali.
“Una rana è una rana” – si disse – “e non ho modo di appurarlo meglio.”
Il sentiero si snodava tra ciliegi impensabili. Le siepi la lasciavano così senza fiato da farle dimenticare ogni tormento. Quando incontrò il proprio maestro i dubbi erano solo un nebuloso ricordo. Sedette al suo fianco. Di tanto in tanto ne sbirciava il profilo. Il volto le sembrava corrucciato. Che vagheggiava? Poi, però, assorta nel non-pensiero dimenticò tutto. E fu sera.
Il venerabile l’accomiatò con un sorriso. Gli assilli di sempre erano divenuti solo un’inezia. Si accorse di star meglio. Era sulla via del ritorno. Dopo un breve tragitto si ritrovò a contare i passi.
“Devo averlo letto da qualche parte”, commentò di riflesso. Già, da qualche parte.
Ora la via sembrava più piacevole. Aveva l’impressione che le venisse incontro. L’incedere accadeva da sé.
Cos’è, poesia o una versione rosea della vera vita?
“A volte mi sento felice per un nonnulla”, pensò la rana.
Contare i passi? Per concentrarsi, qui e ora. Per uscire dal labirinto del chiacchiericcio inconscio. Quel mormorio di sottofondo che – volente o nolente – non ti abbandona mai. E ti condiziona oltre ogni limite. Ti dice cos’è giusto, t’induce alle scelte più consone, e fin qui va bene, ma poi non ti lascia tregua, nessuna pausa, un controllo automatico, quasi costante …
Contare i passi. Per attribuire un senso più consono a ciò che vale davvero. Per non dimenticare del tutto, prima di divenire un puntino, lontano, lontano negli anni. Ma in quel puntino c’è tutto, il presente, il passato, il futuro, tutto ciò che sarebbe potuto accadere e tu, caro amico che leggi. Buon prosieguo.