La mente non è un fenomeno statico, ma un indefinibile susseguirsi di pensieri che scaturiscono dall’avvicendarsi continuo di percezioni e conseguenti emozioni; ovverosia dal loro ripescaggio sotterraneo nell’alveo del subliminale, del recondito, dell’archetipico. Per illustrare siffatta successione siamo ricorsi spesso al’’esempio di un cielo limpido – l’intelletto primigenio e incontaminato – percorso tuttavia da una perenne sequela di nubi, cioè gli indomiti, nonché inarrestabili nembi intellettivi suscitati via via dalle più svariate circostanze.
La nostra matrice psichica è di per sé pura, trasparente, candida, cristallina, ma noi, gli osservatori coinvolti nel perenne spettacolo che l’acume ci offre, tendiamo a identificarci – passivamente – con tutto ciò che – volenti o nolenti – ci capita di osservare. Dapprincipio recepiamo qualunque evento si alterni, dopodiché lo assimiliamo al punto da trasformarci nei suoi più faziosi sostenitori, se non antagonisti. Ebbene, uno degli scopi della meditazione è proprio quello di ristabilire un ordine naturale, una debita, genuina distanza, tra il nostro nucleo più intimo, la coscienza primeva, l’essenza del nostro sé – o non-sé – più recondito e la baraonda emotiva, metafisica, l’eterno carosello che i sensi, nostro malgrado ci offrono. Riusciremo mai nel nostro umile intento di proiettare un semplice, quanto salvifico, faro di consapevolezza nel travolgente labirinto della nostra bizzarra ed eccentrica esistenza? E’ possibile vigilare – e lasciare andare – in modo che l’inscindibile insieme corpo-mente proceda nel miglior modo possibile il suo prezioso e splendente cammino?