Nella pratica della meditazione, così come nella ricerca filosofica, esiste una differenza fondamentale tra osservare la realtà dall’esterno ed esperirla dall’interno. Mentre il nostro abituale modo di conoscere si limita a un approccio relativo – fatto di punti di vista, simboli e interpretazioni – la meditazione ci offre la possibilità di accedere a una comprensione più profonda, diretta e immediata. Attraverso il silenzio interiore e l’abbandono dei concetti predefiniti, possiamo sperimentare ciò che Bergson definiva “conoscenza assoluta”: un contatto intimo con l’essenza delle cose, libero dai filtri del pensiero razionale. Questo passaggio dall’analisi all’intuizione, dal relativo all’assoluto, rappresenta non solo un cambiamento epistemologico, ma una vera e propria trasformazione della coscienza. La meditazione diventa così il ponte per una percezione autentica della realtà, dove non siamo più spettatori distaccati, ma partecipi dell’unità del tutto.
«Se si paragonano tra loro le definizioni di metafisica e le concezioni di assoluto, ci si accorge che i filosofi, a dispetto delle apparenti divergenze, concordano nel distinguere due modi profondamente differenti di conoscere una cosa.
Il primo implica che si giri attorno alla cosa; il secondo che si entri in essa.
La prima maniera dipende dal punto di vista in cui ci si colloca e dai simboli attraverso i quali ci si esprime.
La seconda non assume nessun punto di vista e non si poggia su alcun simbolo.
Della prima conoscenza si dirà che essa si ferma al relativo; della seconda, fin dove è possibile, che essa riguarda l’assoluto.
Per esempio, si consideri il movimento di un oggetto nello spazio: io lo percepisco diversamente a seconda del punto di vista, mobile o immobile, da cui lo osservo, e lo esprimo diversamente a seconda del sistema di assi o di punti di riferimenti ai quali lo rapporto, vale a dire a seconda dei simboli mediante i quali lo traduco.
Ed è per queste due ragioni che lo chiamo relativo.
In un caso come nell’altro mi colloco al di fuori dell’oggetto stesso.
Quando parlo di movimento assoluto è perché attribuisco a ciò che è mobile qualcosa di interiore, come degli stati d’animo, cosicché simpatizzo con tali stati e mi inserisco in essi con uno sforzo dell’immaginazione.
Allora a seconda che l’oggetto sarà mobile o immobile, se esso farà un movimento o un altro, non sperimenterò la stessa cosa.
E quel che proverò non dipenderà né dal punto di vista che ho potuto adottare sull’oggetto, poiché mi troverò nell’oggetto stesso, né dai simboli con cui ho provato a tradurlo, poiché avrò rinunciato a ogni traduzione per prendere possesso dell’originale.
In breve, il movimento non sarà più colto dal di fuori e, in qualche modo, dal punto in cui sono, ma dal di dentro, in esso, in sé.
Possiederò un assoluto.»