Chi è troppo occupato nel fare il bene non ha tempo per esserlo. (Rabindrinath Tagore)
Recentemente mi sono posto un quesito. Quali sono i risvolti religiosi e fideistici di maremoti, terremoti e altri disastri analoghi? Dio, o Vita, o principio assoluto dir si voglia, è responsabile delle calamità, oppure si tratta di fenomeni naturali?
Pretendere di dare una risposta univoca e certa sarebbe arrogante. Tuttavia, al di là delle proprie convinzioni e della tragicità degli eventi, è emblematico come – ad esempio – una determinata onda, sia pur anomala o smisurata, possa cancellare, d’improvviso, così tante esistenze. Le religioni orientali paragonano, talvolta, la vita umana di un singolo individuo ad un’onda che nasce, percorre un certo itinerario finché, esaurita la sua peculiare e distintiva energia, l’impulso primevo che l’animò dandole dinamismo e vigore, viene riassorbita dal suo medesimo contesto.
Idee, concetti, frasi ad effetto che si rincorrono mestamente e affannosamente nel tentativo di giustificare e comprendere gli episodi, per inseguire e interpretare il temporaneo cordoglio di coloro che hanno vissuto le circostanze nefaste attraverso i filtri mediatici, per tentare di lenire l’ansia, suscitare solidarietà e compassione.
Ma quale potrebbe essere il punto cruciale, il nucleo del dubbio che lacera le coscienze, lasciandoci perplessi, suscitando confusione, scetticismo, titubanza, così come volontà di sopperire, soccorrere, aiutare? Ebbene, ricorrendo alle più antiche tra le consuetudini spirituali ho rammentato un concetto imprescindibile dal tema di questa riflessione, quello di responsabilità.
L’impegno, l’obbligo, l’onere, e non il semplice scrupolo di coscienza, per adoperarsi affinché la natura sia vissuta come amica, il mondo non sia più visto come risorsa inesauribile, come mera opportunità di utilizzo o fruizione. Ancora una volta ci ritroviamo a rincorrere la soluzione di un falso problema morale. Cos’è il bene, qual’é il male? A che genere di dottrina potremmo ispirarci? Il problema etico di molti insegnamenti religiosi è che non riescono – o non possono? – trasmettere alcun criterio o senso di responsabilità.
Ma l’autoresponsabilità va in effetti al di là di qualunque ambiguità ambivalente. Supera i sensi di colpa dovuti al rimorso di un eventuale peccato scaturito dall’avere aderito al male a discapito del bene – tutti concetti relativisti – per richiamare in causa il dinamismo interdipendente del fenomeno Vita.
Tutto si evolve nel suo esatto contrario, senza fatalismo, ma solo perché v’è crescita – o decrescita – sviluppo – o inviluppo.
Sicché la distinzione stessa tra bene e male, giusto e ingiusto, ecc., diventa la scelta ipocrita di chi pretende di controllare senza essere, a sua volta, controllato, di manipolare senza accettare, di converso, la possibilità di subire, di possedere senza per questo comprendere che la gioia e l’amore richiedono, semplicemente, la disponibilità ad aprirsi, a dare prima di ricevere.
Ma comprendo che così le categorie si defilano. Quindi, per cercare di stabilire meglio i capisaldi di determinati valori aggiungerei al rispetto della “Vita”, e agli ideali di chiarezza e “consapevolezza”, anche il criterio di “responsabilità” naturale verso se stessi e gli altri. O viceversa l’intuizione della vera “responsabilità” come “consapevolezza” di “Vita”. Oppure il valore di una vita responsabile che favorisce, sicuramente, una rinnovata percezione di consapevolezza spirituale.
Giochi, strani giochi verbali, come i guizzi luminescenti e inafferrabili di mille stelle cadenti che illuminano, ma non tracciano i sentieri dei nostri splendenti reciproci destini.
Articolo del 2005. Grazie per la cortese attenzione.