Chi ha detto che la meditazione debba rifuggire i temi più spigolosi? A volte, è proprio l’intrico delle logiche sociali, l’aridità dei numeri e l’ossessione per l’efficienza a offrire il terreno più fertile per un’indagine interiore. In questo post, l’economia non è analizzata né giudicata, ma evocata come specchio paradossale del nostro tempo: un riflesso che inquieta, ma che può anche suggerire pause di consapevolezza. Meditare non significa evadere, bensì sostare con lucidità là dove il senso sembra smarrito, per cogliere – nel silenzio – ciò che sfugge al clamore.
Questo è il colmo. Cercavo un argomento nuovo, alternativo. E cos’è che mi sovviene? L’economia! Gli impervi ambiti che quantificano le innumerevoli dinamiche sociali. L’unità di misura del giudizio sull’efficienza, il termine di confronto, di paragone più immediato. Superba fonte di tranquillità nel vivere, come desolante causa d’irrequietezza, se non protratta angoscia per tutti: gli esclusi, gli emarginati, quelli che non riescono, loro malgrado, ad adattarsi alla macchina infernale che arruola qualunque anima – leggi tecnostrèss – tra le schiere di eserciti fittizi, nonché contrapposti sul nulla.
Meditare sull’economia
Il cubicolo presso cui
avrei dovuto intrattenermi
è così angusto che persino l’orizzonte
al di là di questa semplice finestra
sembra un obbiettivo irreale
concepito da un mago
per illudermi sulle finalità della vita.
Sennonché la vera illusione
è invece quest’insulso
microscopico postribolo
ideato per androidi subumani
controllori dei flussi,
dall’oro delle spighe nei campi
ai mercati di braccia da diporto.
Epilogo
E se l’economia, con i suoi paradossi e le sue metriche, fosse solo un pretesto? Un sipario che cela il vuoto, ma che può anche rivelare il bisogno di senso. Meditare su ciò che ci inquieta non è un esercizio sterile, bensì un gesto di dignità. Perché anche nel cubicolo più angusto, il pensiero può dilatarsi, e l’anima – se ascoltata – può ritrovare il suo orizzonte.
