Esiste davvero una calma interiore capace di resistere all’urto della violenza più inattesa? Sul sentiero della meditazione, spesso immaginiamo un equilibrio perfetto, un’oasi di pace al riparo dalle tempeste del mondo. Ma cosa accade quando la brutalità della vita irrompe senza preavviso, mettendo a nudo il nostro istinto più primordiale? La quiete faticosamente raggiunta si sgretola di fronte alla necessità di agire, di reagire, ponendoci un interrogativo radicale sull’essenza stessa della nostra pratica. È un abisso che si apre tra l’ideale e il reale, una domanda che attende una risposta non nella teoria, ma nell’istante.
Prendo spunto dal brutale omicidio avvenuto qualche tempo fa di un sant’uomo dedito al lavoro per chiedermi: se mi capitasse di essere aggredito com’è che reagirei? Se non sbaglio, forse semplifico, ma la legge dello Stato indica che la difesa dovrà essere proporzionale all’offesa. Un momento, ma chi l’ha scritto doveva essere, come minimo, tanto per esprimermi con il massimo della gentilezza, completamente al di fuori della realtà. Stavo per dir di peggio, molto di peggio, quindi, per cortesia, immaginate il massimo del disgusto. Non intendo far retorica. Penso solo al pover’uomo che amava la sua gente, il suo lavoro, quelle piccole cose che gli davano la forza e la gioia per sopravvivere e mi chiedo: chi sono i responsabili morali di cotanta feroce violenza? Ebbene, paghino per l’offesa arrecata dal delitto. Ora una poesia.
Cosa farò col ladro?
Com’è mio caro cielo
che invece d’esser limpido
ti trovo così ambiguo
che sembri un simulacro
freddo, distante,
finanche mezzo ostile?
Eh già, l’ho detto,
dipende dal mio umore,
dipende dalla fonte
che non si stanca mai
di proiettare altrove
il bello, il puro o l’ombre
di tutto ciò che sfiora.
Se tu che sei già saggio
mi sembri chi profitta,
cosa farò col ladro
che entra di soppiatto,
mi punta un’arma,
pronto a estirpar la vita
sia a me che a tutti i cari?
Beh, per non lasciar la pelle
innanzitutto agisco,
poi osservo ciò che ho fatto.
Epilogo
L’azione, dunque, come un fulmine in un cielo che credevamo sereno. Non è un fallimento del nostro percorso, ma forse la sua più autentica verifica. La vera meditazione, allora, non risiede nell’evitare l’istinto, ma nell’osservarlo senza giudizio una volta che si è manifestato. È in quello spazio, dopo l’impatto, che la consapevolezza può sorgere, non per giustificare o condannare, ma per integrare l’ombra, per riconoscere che anche l’impulso a proteggere la vita fa parte del nostro essere. La pace non è assenza di tempesta, ma la capacità di ritrovare il centro dopo che è passata.
