Molti tra noi, direi la maggior parte, danno per scontato che l’umore con cui ci risvegliamo al mattino; quindi la gioia, l’ottimismo, se non la ritrosia o la diffidenza verso tutto ciò che di lì a poco accadrà siano davvero i nostri. Ti sei mai chiesto se, in realtà, la variegata processione e alternanza di umori e sentimenti ci appartengono davvero? O se non siano, al contrario, frutto di un’incredibile serie di circostanze, approcci, reazioni, persino influssi biochimici, che si susseguono e avvicendano con una logica poco prevedibile?
Sarà che stamane mi sono ritrovato con la luna di traverso, con il sole interiore ricoperto da una spessa coltre di nubi minacciose. Fatto sta che in attesa che l’ambaradan si diradasse, che la colazione facesse i suoi primi effetti, che il caffè ravvivasse ulteriormente i miei ancora labili e incoerenti pensieri, ho osservato con la pervicacia e la fermezza di chi è già aduso alla meditazione quel coacervo subliminale che via via emergeva. Così come accade di solito, credevo che la luce del focus intenzionale l’avrebbe disperso, messo in fuga. E invece, stavolta, mi sono reso repentinamente conto che quella sorta di sovrastruttura emotiva non mi apparteneva affatto. Col passare degli attimi si faceva viepiù distante. Celato dietro questo assurdo paravento con cui mi ero improvvidamente identificato sussisteva il vero “me”, un soggetto di primo acchito relativamente tranquillo. Senza rifletterci su più di tanto ho esperito, ma stavolta dal vivo, che noi non siamo affatto la parte più superficiale della mente con i suoi innumerevoli e talvolta persino irrazionali volteggi, ma quel’umile essere – o non-essere – che scruta dipanarsi, reiterarsi e riproporsi le eccentriche, volubili apparenze di ciò che gli antichi Yogi indicarono come “il velo di Maya”.