L’indole della nostra stirpe è arcinota: curiosa, volitiva, creativa, bizzarra. Le sue propensioni sono spesso sorprendenti. Tuttavia, esaltarne eccessivamente quegli attributi considerati tipicamente umani, quali fratellanza, solidarietà e altruismo, ci ha fatto illudere di essere una progenie di privilegiati. Ci siamo persuasi che tutto ruoti intorno a noi.
L’attitudine antropocentrica permea la nostra cultura, giustificando solo quelle circostanze che ci consentono gratificazioni fisiche e psicologiche immediate. Il tutto a discapito dei soliti esclusi, la periferia dei più deboli.
Anche se apparentemente amiamo perderci nella folla tentando, altresì, di appartenere ad un gruppo rispettandone regole, leggi, nonché aderendo a principi e valori ideali, rimane ben presente in ciascuno, la necessità di emergere dall’anonimato.
Ma com’è possibile distinguersi? Offrendo il meglio di se stessi, ovvero creando attriti, repentini contrasti che privilegiano la propria centralità essenziale a discapito della poliedrica e multiforme realtà esistenziale.
Sicché accade che siffatta tendenza egocentrica induca a rimuovere, ben presto, la percezione del contesto che le ruota intorno. Esclude la periferia a vantaggio della sua centralità, individualità, unicità.
Certo, la periferia che consta di mille e uno vite, innumerevoli verità microcosmiche, continua comunque ad esistere. Per quanto volitivo, l’atto egoistico non la cancella, ma la subordina al ruolo d’infimo corollario, di comparsa. Finché non accadrà che i ruoli s’invertano e la comparsa non divenga a sua volta protagonista primaria.
Osservate attentamente la crocetta nera al centro dell’immagine. Sullo sfondo, dove inizialmente erano presenti solo palline rosa, ne vedrete comparire una verde che traccia un cerchio saltando da un pallino rosa all’altro. Persistendo nel concentrarvi sulla croce centrale i pallini rosa spariranno del tutto ricomparendo di nuovo alla minima distrazione. Esiste una semplice spiegazione scientifica che tuttavia tralasciamo. A noi interessa far rilevare come l’occhio non sia uno spettatore passivo e imparziale della realtà, ma interpreta e rielabora l’insieme in funzione del proprio livello di consapevolezza.
Come vedete persino la qualità della percezione è relativa all’uso dei sensi, al loro condizionamento, al proprio livello di egoismo. Quanto più saremo centrati su noi stessi, tanto più escluderemo la vita. Ma per abbracciare la vita bisogna prima trovare un proprio equilibrio. Scherzi, curiose contraddizioni di un destino che richiede prima l’affermazione di un’inconfondibile ego per riconoscerne infine l’infondatezza essenziale.
E naturalmente l’ego non esiste. Si tratta solo di un artificio della mente che non riuscendo ad accettare la realtà di “ciò che è” tenta di perpetrare se stessa nel “tempo”. L’ego è proprio come l’intersezione di quelle due direttrici, non ha vita propria. Non è un contenitore. Può essere definito soltanto dall’aggregazione temporanea e contingente delle sue trame. Non è la bisaccia, bensì la provvista. Non è come l’anfora, ma le chiare fresche acque ch’essa serba per coloro che sanno come fluire al ritmo stesso della vita.
Che c’è oltre quel punto laddove è Kaivalya (l’essere solo del jainismo), nirvana (l’essenza di sé del Buddhismo), e moksha (la liberazione dell’induismo)? Lo stato finale per il quale nessun nome sarà mai sufficiente.
Osserva il positivo, ricercalo. Quando subentra la luce, l’oscurità si dilegua.