Nella pratica della meditazione e del cammino spirituale, impariamo che il vero bene nasce dalla purezza dell’intenzione, libera dal desiderio di riconoscimento o ricompensa. Troppo spesso, infatti, la generosità viene contaminata da aspettative nascoste: la gratitudine altrui, il miglioramento del proprio karma, o persino il piacere segreto di sentirsi “buoni”. La saggezza sufi ci invita a riflettere profondamente su questo meccanismo sottile dell’ego, che trasforma anche le azioni più nobili in monete di scambio spirituale. Attraverso la meditazione, possiamo coltivare una qualità di presenza che ci permette di agire con autentica compassione, senza attaccamento ai risultati o al giudizio – interno ed esterno. Questo non significa rinunciare a fare il bene, ma piuttosto purificare il cuore da ogni traccia di orgoglio e calcolo, per sperimentare la libertà di donare senza condizioni. Un percorso che trasforma non solo le nostre azioni, ma la nostra stessa comprensione dell’altruismo.
«Se fai del bene, non aspettarti gratitudine.
Da cui discende l’inevitabile considerazione che, se si vuol far del bene, bisogna farlo in modo disinteressato, senza desiderio di gratitudine o ricompensa.
Semplice e innegabile considerazione questa, ma del tutto estranea, per esempio, alla cultura della cosiddetta Gente del Libro, cioè Ebrei, Cristiani e Musul-mani.
Nei loro testi sacri vi è l’ingiunzione a fare il bene, ma questa non è mai disgiunta dalla motivazione di una ricompensa, in questo o nell’altro eventuale mondo.
Analogamente, questa formula di causa ed effetto, si ritrova nella dottrina, induista e buddista, del karma, ove ad una buona azione corrisponde il beneficio d’estinzione di un karma negativo.
La ricompensa, in questo caso, è il reincarnarsi in una vita migliore.
Esiste l’infondata convinzione, sia in oriente e sia in occidente, che una buona azione possa riequilibrarne una cattiva, permettendo così la remissione dei nostri peccati, in vista di un giudizio divino, la punizione di un inferno, il premio di un paradiso o di una nuova, migliore vita.
Il fare il bene inteso come moneta di scambio.
Il fare il bene inteso come guadagno per chi lo fa, e non, necessariamente, per chi lo riceve.
C’è un’illuminante invocazione, in una famosa preghiera sufi:
“Oh Dio, che io possa adorarti non per il timore dell’inferno, né per il desiderio del paradiso.
L’azione di fare il bene deve essere completamente libera dall’attesa di un’eventuale ricompensa.
La più subdola, nascosta, inconfessabile ricompensa per l’essere umano, quando fa il bene, è il piacere di sentirsi e sapersi buono, la vanità di mostrare a se stesso e agli altri le proprie buone azioni, l’arroganza della propria bontà.
Orgoglio che è rafforzato anche, e specialmente, dall’assenza di gratitudine, ricompensa o riconoscenza per il bene fatto, assenza che autoconferma a noi stessi che il bene che abbiamo fatto era veramente puro, nobile e disinteressato.
Il proverbio quindi non riguarda solo l’ingratitudine dell’ape e della sua puntura, ma anche la limitatezza dell’opportunismo, vanità e orgoglio dell’essere umano che, volendola salvare, inevitabilmente proverà il pungiglione e il suo veleno.»
[ Da: Il diciottesimo cammello. 17 proverbi sufi – Piero Crida ]