In meditazione si osservano spesso i moti della mente come si scruterebbe la superficie di un lago alla ricerca delle onde più sottili. Talvolta, tra i pensieri più profondi e sedimentati, emerge un’immagine che non è frutto dell’esperienza immediata ma di antiche suggestioni interiorizzate senza che ce ne rendessimo conto: l’idea di una presenza superiore, un ordine invisibile, una figura divina. Ma quanto è nostra, davvero, questa immagine? E quanto invece è stata modellata — nel silenzio dell’infanzia — dai gesti dei genitori, dalle parole ascoltate per caso, da rituali inconsapevoli? Riflettere su tutto ciò non è sterile indagine mentale, bensì meditazione nel senso più ampio del termine: un ritorno sobrio alla sorgente del proprio sentire, per distinguere ciò che si è assorbito da ciò che davvero si sente. Non si tratta di negare il sacro, ma di sciogliere il velo delle proiezioni, per non confondere ciò che rassicura con ciò che sostiene davvero. La meditazione diventa allora un’occasione per lasciare emergere una forma di fiducia meno infantile, più profonda, capace di reggersi senza dover cercare conferme altrove.
LA RAPPRESENTAZIONE DI DIO (A. H. ALMAAS)
« … quest’immagine inconscia di Dio condiziona in certa misura il nostro senso del mondo, che comprende l’intero ambiente di contenimento.
Per intrattenere un rapporto corretto con tutto quanto esiste,
con l’intelligenza al di là delle apparenze, dovremo strappare i veli che oscurano la nostra visione della realtà.
Uno di questi veli sono le immagini proiettate, di cui quella principale è la rappresentazione inconscia di Dio.
Fin dall’inizio ci presentano Dio come la persona o la cosa che si cura di noi, che provvede amorevolmente a noi e all’universo, sicché il nostro senso di fiducia fondamentale e di contenimento è strettamente connesso con l’idea di Dio.
L’immagine di lui che abbiamo formato determina il nostro grado di fiducia fondamentale.
Più tale immagine è amorevole ed empatica, più siamo capaci di rilassarci, consapevoli che ci sarà qualcuno che provvede a noi.
Meno la nostra immagine della divinità possiede tali qualità maggiori saranno la nostra paura, il nostro sgomento, sapendo che dovremo lottare, essere buoni o in qualche modo diversi, che dovremo manipolare gli altri e noi stessi per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.
La nostra rappresentazione di Dio è un amalgama formato dalle prime esperienze con la madre, col padre, con ciò che nella nostra cultura locale si diceva di Dio, con quello che c’insegnavano se frequentavamo la chiesa o il tempio, con quello che sentivamo dire di Dio a scuola, alla televisione e in altri posti, con le immagini pittoriche che mettevamo in relazione a Dio e alla religione.
Il rapporto con Dio è particolarmente influenzato dai rapporti coi genitori, dal momento che nei primi tempi essi erano per noi degli dèi, nel senso che si prendevano cura di ogni aspetto della nostra vita.
Nella nostra ottica infantile, i genitori ci apparivano onnipotenti e onniscienti.
Inoltre, siccome nei primi mesi d’infanzia il senso del sé si fonde con la madre e risiediamo ancora per buona parte nell’Essere, la nostra idea di madre contiene numerosi aspetti dell’esperienza dell’Essere.
Tutte queste esperienze con padre, madre e qualsiasi idea religiosa con cui entriamo in contatto formano la nostra
immagine inconscia di Dio.»
[ Da: L’Enneagramma delle Idee Sacre. Aspetti molteplici della realtà — A.H. Almaas ]
Conclusione
Quando ci sediamo in silenzio, lasciando che ogni rappresentazione interiore scorra senza trattenere nulla, può affiorare un senso di vastità che non ha nome. Non è negazione di ciò che fu, ma uno svuotamento gentile dei contenitori mentali che ci siamo portati dietro fin da bambini. Meditare non significa inventarsi una nuova idea del divino, ma smettere di affidarsi ciecamente a ciò che non ci appartiene più. In questa quieta sincerità può affacciarsi, senza bisogno di parole, un sentire nuovo, meno contaminato, più prossimo a ciò che davvero ci sostiene.