Quando si parla di Via – in ambito spirituale – non s’intende, necessariamente, una serie aprioristica di dettami, scelte da seguire, comportamenti da adottare, bensì, più semplicemente, il percorso – nello specifico il sentiero, la prassi di meditazione – a cui un determinato maestro, un’«anima» realizzata, si è attenuto nella propria emancipazione. In effetti ciò non significa che vada comunque bene o sia utile per tutti. Questo dipende dalle peculiarità intrinseche della propria specifica evoluzione. Tuttavia conoscere quale sia stato o meno il suo metodo, il suo criterio per avventurarsi nel misterioso reame dell’interiorità – e di là proiettarsi in quello della quotidianità più umile o scontata – può rivelarsi davvero essenziale. Oggi leggeremo alcuni cenni sulla pregevole quanto rimarchevole via seguita da Ramana Maharshi, umilmente grati per l’esempio che offrì e ancor più riconoscenti per l’impareggiabile esempio offerto.
«Ai principianti dell’auto-indagine veniva consigliato, da Sri Ramana, di porre l’attenzione sul sentimento interiore di “io” e di trattenere quel sentimento il più a lungo possibile. Veniva detto loro che se l’attenzione veniva distratta da altri pensieri dovevano tornare alla consapevolezza del pensiero “io” ogni volta che diventavano consapevoli che la loro attenzione aveva divagato.
Egli suggerì diversi metodi per favorire questo processo ci si poteva chiedere: “Chi sono io?”, oppure: “Da dove viene questo io?” ma lo scopo ultimo era di essere continuamente consapevoli dell” ‘io” che presume di essere responsabile di tutte le attività del corpo e della mente. Nei primi stadi della pratica, l’attenzione al sentimento “io” è un’attività mentale che prende la forma di un pensiero o una percezione. Man mano che la pratica si sviluppa il pensiero “io” lascia spazio ad un sentimento dell'”io” sperimentato soggettivamente e quando questo sentimento cessa di collegarsi e identificarsi con i pensieri e gli oggetti, svanisce completamente. Ciò che rimane è un’esperienza di essere in cui il senso dell’individualità ha temporaneamente cessato di funzionare. L’esperienza all’inizio può essere intermittente, ma con la pratica ripetuta diventa sempre più facile da raggiungere e mantenere. Quando l’auto-indagine raggiunge questo livello c’è una consapevolezza senza sforzo di “essere” in cui lo sforzo individuale non è più possibile poiché l'”io” che compie lo sforzo ha temporaneamente cessato di esistere. Non è la realizzazione del Sé, perché il pensiero “io” periodicamente riafferma se stesso, ma è il più alto livello della pratica. La ripetuta esperienza di questo stato di essere indebolisce e distrugge le vasana (tendenze mentali) che fanno sorgere il pensiero “io”, e quando la loro presa è stata sufficientemente indebolita, il potere del Sé distrugge le tendenze residue così completamente che il pensiero “io” non sorge mai più. Questo è il finale ed irreversibile stato della realizzazione del Sé. Questa pratica di auto-attenzione, o consapevolezza del pensiero “io”, è una tecnica facile che supera gli usuali metodi repressivi per controllare la mente. Non è un esercizio di concentrazione, né mira a sopprimere i pensieri; fa semplicemente appello alla consapevolezza della sorgente da cui la mente ha origine. Il metodo e la mèta dell’auto-indagine è di dimorare sulla sorgente della mente, di essere consapevoli di ciò che si è realmente ritirando l’attenzione e l’interesse da ciò che non si è. Negli stadi iniziali lo sforzo nel trasferire l’attenzione dai pensieri al pensatore è essenziale, ma una volta che la consapevolezza del sentimento dell’ “io” è stata fermamente stabilita, ulteriore sforzo è controproducente. Da allora è più un processo di essere che di fare, di essere senza sforzo piuttosto che uno sforzo per essere. Essere ciò che già si è, è privo di sforzi poiché l’esistenza è sempre presente e sempre sperimentata. D’altra parte, pretendere di essere ciò che non si è (il corpo e la mente) richiede uno sforzo mentale continuo, anche se lo sforzo è quasi sempre ad un livello inconscio. Ne segue perciò che nei più elevati stadi dell’auto-indagine lo sforzo allontana l’attenzione dall’esperienza dell’essere mentre la cessazione dello sforzo mentale la rivela. Alla fine ii Sé non viene scoperto come risultato del fare qualcosa, ma soltanto essendo. Come Sri Ramana stesso una volta osservò: “Non meditare, sii! ” “Non pensare di essere, sii!” “Non pensare all’essere, tu sei!” L’auto-indagine non dovrebbe essere considerata una pratica di meditazione da eseguire a certe ore e in certe posizioni; dovrebbe continuare durante tutte le ore della veglia, indipendentemente da ciò che si sta facendo. Sri Ramana non vedeva conflitto tra il lavoro e l’auto-indagine ed affermava che con un po’ di pratica poteva essere eseguita in qualunque circostanza. Qualche volta disse che periodi regolari di pratica formale erano benefici per i principianti, ma non patrocinò mai lunghi periodi di meditazione in posizione seduta e mostrò sempre la sua disapprovazione se qualcuno dei suoi devoti esprimeva il desiderio di abbandonare le attività mondane in favore di una vita meditativa.»
(Da: Ramana Maharshi – “Sii ciò che sei” a cura di David Godman – amazon)
– Ramana Maharshi (amazon)
– Ramana Maharshi (macrolibrarsi)
– Ramana Maharshi – Wikipedia
– Aforismi di Ramana Maharshi (1879-1950)
– Sii ciò che sei. Ramana Maharshi ed il suo insegnamento D. Godman – macrolibrarsi