A proposito di “attenzione” e pratiche relative alla meditazione, cosa accade nelle altre tradizioni spirituali, ad esempio nel mondo dell’Islam? Anche stavolta ricorriamo ai dotti e concisi cenni di Philip Novak. L’insight introspettivo prevede svariate prassi contemplative, dal silenzio ad approcci simili ai mantra: l’obbiettivo è la concentrazione sull’essenza primeva, sull’apice esistenziale di ciascuno e, nel contempo, della totalità degli esseri senzienti, su Dio. Il nostro benemerito autore traccia altresì un repentino parallelo – concernente sempre l’autorealizzazione – con gli insegnamenti di G. I. Gurdjieff e J. Krishnamurti. …
«Nel mondo dell’Islam, abbiamo la pratica contemplativa del silenzio e del “dhikr”: quest’ultimo è un’altra ripetizione simile ai mantra, solitamente dei nomi di Allah, finalizzata a imbrigliare la volontà e il suo potere di attenzione. Un termine più generico per il tipo di attenzione meditativa raggiunta nel dhikr è “moraqebeh”, che indica una “concentrazione della propria attenzione su Dio”, “la vicinanza del cuore a Dio”, “l’assorbimento dello spirito (umano) – «ruh» – nel respiro di Dio” e “la concentrazione di tutto il proprio essere su Dio”. Moraqebeh, dicono i sufi, non è solo un’attività umana, ma anche divina: è poiché Dio è sempre attento a noi, che noi dovremmo esserlo a lui.»
«Due uomini che hanno attinto alle tradizioni di cui sopra e i cui scritti eclettici hanno avuto una grande influenza su chi è interessato all’autorealizzazione, sono G. I. Gurdjieff e J. Krishnamurti. Fondamentale nel lavoro di Gurdjieff è l’esercizio del “ricordo di sé”, consistente nel tentativo di sviluppare un’attenzione continua, priva di distrazioni e osservazionale diretta sia all’esterno, verso l’esperienza, sia – allo stesso tempo – all’interno, verso colui che sperimenta. Questo particolare aspetto del lavoro di Gurdjieff è simile agli esercizi di “nuda attenzione” della meditazione vipassana buddista. Krishnamurti insegna che la pratica fondamentale della trasformazione psicologica è la “consapevolezza priva di scelta”. Si tratta, di nuovo, della pratica di un’attenzione continua, osservazionale e non-reattiva verso l’esperienza interiore ed esteriore. Considerandola in modo isolato dal resto dell’insegnamento di Krishnamurti, questa attenzione non è molto diversa dal lavoro di Gurdjieff o dalla “nuda attenzione” dei buddisti.»