Perché meditare? Forse per visualizzare, se non esperire, un ipotetico mondo virtuale di pace e serenità in cui la gioia predomini sempre e comunque? Nulla di più fantasioso, la felicità non è come la mietitura del grano, non si raccoglie dopo aver seminato e non è nemmeno una sorta di questua. La felicità, ossia il vero obbiettivo della meditazione, è inerente, implicita, intrinseca alla vita medesima. La cosiddetta beatitudine è il sostrato animico? Il benessere è “ciò che è” quando ci rendiamo conto che la vita è soprattutto un gioco, un intrattenimento in cui cimentarsi purché non ci coinvolga fino al punto da dimenticare chi siamo davvero. Tutto ciò da cui ci dovremmo liberare per accedere al mondo della gioia sovrasensibile è l’idea della perfezione… Meditare è, per l’appunto, stare con la vita così com’è. Ora leggiamo qualche cenno in merito formulato da Charlotte Joko Beck…
«La pratica dello Zen (meditazione – ndr) non cerca un luogo speciale né una speciale pace, né niente che non sia lo stare con la vita così com’è. È la cosa più difficile, ma le mie stesse difficoltà sono, in questo preciso momento, la perfezione. “La perfezione? Ma io voglio praticare per liberarmene!”. No, non per liberarcene ma per vederne la vera natura. Così la sovrastruttura diventa (o sembra diventare) più sottile, meno spessa, e a volte possiamo aprire uno spiraglio. A volte.
Vorrei che ognuno di voi vedesse ciò che, in questo preciso momento, rifiuta della propria vita. Forse problemi di coppia, mancanza di un lavoro, delusione di una meta che non si è raggiunta. Anche se si tratta di qualcosa di doloroso, di angoscioso, va benissimo. Riuscirci è arduo. Anche solo per intaccare superficialmente la nostra visione abituale della vita, ci vuole una lunga pratica. È duro riconoscere che non c’è motivo di volerci liberare da una disgrazia. La disgrazia è perfetta. Non è necessario amarla, ma è perfetta.»
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“ ]
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– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck