Nel vasto mondo della meditazione, pochi nomi risuonano con la stessa profondità di Ramana Maharshi. In questi appunti egli esplora le sue pratiche di meditazione e investigazione, offrendo una guida preziosa per chi cerca di approfondire la propria esperienza spirituale. Attraverso un’analisi delle sue tecniche, scopriremo come la meditazione non sia solo un mezzo per trovare la pace interiore, ma anche uno strumento – quanto più efficace e concreto – per l’auto-investigazione e la comprensione del sé. Unisciti a noi – virtualmente – in questo viaggio di scoperta e riflessione, e lasciati ispirare dalle sagge riflessioni di uno dei più grandi maestri spirituali.
D. Qual è la differenza fra meditazione e investigazione?
R. Sono entrambe la stessa cosa. Coloro che non sono idonei all’investigazione devono praticare la meditazione. Nella meditazione l’aspirante dimentica se stesso e medita “Io sono Dio” (o Brahman, o Shiva…) e attraverso questo metodo si aggrappa a Brahman o a Shiva (a Dio). Ciò alla fine terminerà con la consapevolezza residua di Dio (Brahman o Shiva) come essere. Ed allora realizzerà che questo è il puro essere, il Sé. Per colui che si impegna nell’investigazione e inizia ad aggrapparsi a se stesso chiedendosi “Chi sono io?”, il Sé gli diventa chiaro. Immaginare mentalmente di essere la suprema realtà, che risplende come esistenza-coscienza-beatitudine, é meditazione. Fissare la mente nel Sé, cosicché il seme reale dell’illusione muoia, è indagine. Chiunque mediti sul Sé in qualunque immagine mentale (bhava) lo consegue solo in quell’immagine. Quegli esseri pacifici che rimangono quieti senza alcuna simile “bhava” conseguono il nobile ed inqualificato stato del kaivalya, lo stato informale del Sé.
D. La meditazione è più diretta dell’investigazione perché la prima si aggrappa alla verità, mentre la seconda separa la verità dalla non verità.
R. Per il principiante la meditazione su una forma è più facile e piacevole. La sua pratica conduce all’auto-indagine che consiste nel separare la realtà dall’irrealtà. .. La meditazione differisce secondo il grado di progresso del cercatore. Se uno è idoneo per essa può aggrapparsi direttamente al pensatore, ed il pensatore allora sprofonderà automaticamente nella sua sorgente, la pura coscienza. Se uno non può aggrapparsi al pensatore direttamente deve meditare su Dio e nel dovuto corso l’individuo stesso diventerà sufficientemente puro per aggrapparsi al pensatore e sprofondare nell’essere assoluto. La meditazione é possibile solo se si mantiene l’ego. C’è l’ego e l’oggetto su cui si medita. Il metodo è perciò indiretto perché il Sé é soltanto uno. Cercando l’ego, cioè la sua sorgente, l’ego scompare. Ciò che resta è il Sé. Questo metodo è quello diretto.
D. Si dice che le persone che praticano la meditazione ne ricavino nuove malattie … Si afferma che questa sia una prova di Dio.
R. Non c’è Dio all’esterno di te, perciò non viene istituita alcuna prova. É lo sforzo che viene ora imposto ai tuoi nervi ed ai tuoi cinque sensi… Il dolore é inevitabile come risultato dello scartare le vasana (tendenze mentali) che hai avuto così a lungo.
D. Qual è il miglior modo di trattare i desideri e le vasana al fine di liberarsene, soddisfarli o reprimerli?
R. I desideri non vengono in genere sradicati appagandoli. Né, reprimendoli, in quanto la repressione forzata è destinata a ripercuotersi presto o tardi in un insorgere violento di desideri con conseguenze indesiderabili. Il modo appropriato di liberarsi dei desideri é scoprire “CHI ha il desiderio, quale è la sua sorgente” . Quando si scopre questo, il desiderio verrà sradicato, non risorgerà mai più. I piccoli desideri, come il desiderio di mangiare, dormire, bere puoi soddisfarli con tranquillità. Non pianteranno alcuna vasana nella tua mente rendendo necessarie ulteriori rinascite. Quelle attività sono necessarie per portare avanti la vita e non svilupperanno o lasceranno dietro di loro vasana (tendenze).
D. Sri Baghavan dice che l’investigazione viene considerata l’unico metodo per giungere alla realizzazione.
R. Sí, quello é vichara (autoindagine)
D. Come viene fatta?
R. L’interrogante deve ammettere l’esistenza del suo Sé. “Io sono” è la realizzazione. Seguire la traccia fino alla realizzazione è vichara. Vichara e la realizzazione sono la stessa cosa.
D. Ció é evasivo. Su che cosa mediteró?
R. La meditazione richiede un oggetto su cui meditare, laddove in vichara c’è soltanto il soggetto senza l’oggetto. La meditazione differisce da Vichara in questo modo.
D. Non è la meditazione (Dhyana) uno dei processi più efficaci per raggiungere la realizzazione?
R. Dhyana è concentrazione su un oggetto. Realizza lo scopo di tenere lontano diversi pensieri e di fissare la mente su un solo pensiero, il quale deve anch’esso scomparire prima della realizzazione. Ma la realizzazione non è nulla di nuovo da acquisire. É già là, ma ostruita dallo schermo dei pensieri. Tutti i nostri tentativi sono diretti a sollevare questo schermo e quindi la realizzazione si rivela.. Se ai cercatori viene consigliato di meditare, molti potrebbero andarsene soddisfatti di questo consiglio. Ma qualcuno potrebbe volgersi e chiedere: “Chi sono io per meditare su un oggetto”? Ad uno così bisogna dire di scoprire il Sé. Quella è la finalità. Quella è Vichara (autoindagine).
D. Vichara sarà sufficiente in assenza della meditazione?
R. Vichara è il processo ed anche la meta. “IO SONO” è la meta e la realtà finale. Aggrapparsi a ciò con sforzo è vichara. Quando è naturale e spontaneo è realizzazione. Se si lascia da parte Vichara, che è la Sadhana (disciplina spirituale) più efficace, non c’è altro mezzo adeguato, qualunque esso sia, per far sprofondare la mente. Se si cerca di calmarla con altri mezzi, se ne starà come se lo fosse, ma sorgerà ancora. L’auto-indagine è il mezzo infallibile, il solo diretto, per realizzare l’incondizionato essere assoluto che realmente sei.
D. Perché soltanto l’autoindagine dovrebbe essere considerato il mezzo diretto per Jnana ?
R. Perché ogni tipo di Sadhana, eccetto quello della Vichara, presuppone la ritenzione della mente come strumento per portare avanti la Sadhana, e senza la mente non possono essere praticati. L’ego può assumere forme differenti e più sottili in differenti stadi della propria pratica ma non viene mai distrutto. Il tentativo di distruggere l’ego o la mente attraverso tipi di disciplina spirituale diversi dall’auto-indagine è come il ladro che finge di essere un poliziotto per acciuffare se stesso. Soltanto la Vichara può rivelare la verità che né l’ego né la mente esistono realmente e può metterci in grado di realizzare il puro, indifferenziato essere del Sé o l’assoluto.
Avendo realizzato il Sé, non resta nulla da conoscere, perché il Sé è perfetta beatitudine, è il tutto.
L’attenzione sul proprio Sé, che è sempre risplendente come “io”, l’unica ed indivisa realtà, è la sola zattera con cui l’individuo, che è illuso dal pensiero “io sono il corpo” può attraversare l’oceano di interminabili nascite. La realtà è semplicemente la perdita dell’ego. Distruggi l’ego ricercandone l’identità. Poiché l’ego non è un’identità, svanirà automaticamente e la realtà svanirà da se stessa. Questo è il metodo diretto, laddove tutti gli altri metodi vengono eseguiti solo mantenendo l’ego.
In quei sentieri sorgono molti dubbi, ed alla fine resta comunque da affrontare l’eterna questione “chi sono io?”. Ma con l’auto-indagine la questione finale é sollevata fin dall’inizio. Nessuna Sadhana è necessaria per impegnarsi in questa ricerca.
Non c’è mistero più grande di questo – essendo la realtà, cerchiamo di ottenere la realtà. Pensiamo che ci sia qualcosa che nasconde la nostra realtà e che deve essere distrutta prima che la realtà venga guadagnata. É ridicolo. Verrà un giorno in cui tu stesso riderai dei tuoi sforzi passati. Quello che sarà nel giorno in cui riderai è anche qui e adesso.
– Indagine sul Sé – Pratica –
Ai principianti dell’auto-indagine viene consigliato di porre l’attenzione sul sentimento interiore di “io” e di trattenere quel sentimento il più a lungo possibile. Se l’ attenzione viene distratta da altri pensieri si deve tornare alla consapevolezza del pensiero “io” ogni volta che si diventa consapevoli che il pensiero ha divagato. Per favorire questo processo ci si può chiedere: “Chi sono io?” oppure: “Da dove viene questo io?”, ma lo scopo ultimo é di essere consapevoli dell’io che presume di essere responsabile di tutte le attività del corpo e della mente.
Nei primi stadi della pratica l’attenzione al sentimento “io” è un’attività mentale che prende la forma di un pensiero o di una percezione. Man mano che la pratica si sviluppa il pensiero “io” lascia spazio ad un sentimento dell’ “io” sperimentato soggettivamente e quando questo sentimento cessa di collegarsi e identificarsi con i pensieri e gli oggetti, svanisce completamente.
Ciò che rimane è un’esperienza di essere il cui senso dell’individualità ha temporaneamente cessato di funzionare. L’ esperienza all’inizio può essere intermittente, ma con la pratica ripetuta diventa sempre più facile da raggiungere e da mantenere. Quando l’auto-indagine raggiunge questo livello c’è una consapevolezza senza sforzo di essere in cui lo sforzo individuale non é più possibile poiché l'”io” che compie lo sforzo ha temporaneamente cessato di esistere. Non é la realizzazione del Sé, perché il pensiero “io” periodicamente riafferma se stesso, ma è il più alto livello della pratica. La ripetuta esperienza di questo stato di essere indebolisce e distrugge le vasana (tendenze mentali) che fanno sorgere il pensiero “io” e quando la loro presa é stata sufficientemente indebolita, il potere del Sé distrugge le tendenze residue cosí completamente che il pensiero “io” non sorge mai più. Questo è il finale ed irreversibile stato della realizzazione del Sé.
Questa pratica di auto-attenzione, o consapevolezza del pensiero “io”, è una tecnica facile che supera gli usuali metodi repressivi per controllare la mente. Fa semplicemente appello alla consapevolezza della sorgente da cui la mente ha origine. La meta é di dimorare sulla sorgente della mente… Negli stadi iniziali lo sforzo nel trasferire l’attenzione dai pensieri al pensatore é essenziale, ma una volta che la consapevolezza del sentimento “io” é stata fortemente stabilita, ulteriori sforzi sono controproducenti. Da allora è più un processo di essere che di fare, di essere senza sforzo piuttosto che uno sforzo per essere.
Essere ciò che già si è, è privo di sforzo, mentre pretendere di essere ciò che non si è (il corpo e la mente) richiede uno sforzo mentale continuo, anche se lo sforzo è quasi sempre ad un livello mentale inconscio. Ne segue che nei casi più avanzati di auto-indagine lo sforzo allontana l’attenzione dall’esperienza dell’essere, mentre la cessazione dello sforzo mentale la rivela.
Alla fine il Sé non viene scoperto come risultato di fare qualcosa, ma soltanto ESSENDO.
Non meditare – sii!
Non pensare di essere – sii!
Non pensare all’essere – tu sei!
[ Da: Godman D., Sii ciò che sei, Ramana Maharshi e il suo insegnamento ]