La paura della sofferenza è uno dei timori più ricorrenti. Senonché sono in tanti a rivolgersi alla meditazione con la segreta speranza di bypassare ogni angoscia. Siffatta inquietudine ha presupposti atavici. L’obbiettivo della meditazione – intesa correttamente – è il puro sentire, senza orpelli, senza fronzoli di sorta… e non una via di fuga verso gli artefatti lidi dell’inconsapevolezza, un infingardo rifugio anti-ansiogeno riservato, quindi, a controverse personalità pseudo-spirituali. La paura, in realtà, non è mai continua. Si tratta, in effetti, di onde-pensiero che lambiscono a tratti il proprio egotico (culto di sé) solipsismo (il soggetto come unica realtà). Il problema è la mancanza di un centro… di consapevolezza. La meditazione, ben lungi dal rincorrere ad oltranza una meta è, soprattutto un costante tentativo di sintonizzarsi viepiù con la fonte… (l’autentico non-sé). Leggiamo, ora, come si esprime, a tal proposito, Chandra Livia Candiani…
«Una paura che riscontro crescente in questi anni nelle persone che mi chiedono di imparare a meditare è la paura della sofferenza. Spesso mi accorgo che nella loro richiesta di iniziare un percorso interiore, c’è la speranza di poter star bene senza passare dal male, di scavalcarlo, di andare oltre senza attraversarlo. E c’è la speranza di poter fare tutto da soli, di incontrare una via di salvezza che non passi dalla scomodità dell’incontro con un altro, dal dialogo. Ma non è cosi che procede il percorso della meditazione. La meditazione, goccia a goccia, respiro per respiro, passo passo, ci mette in contatto con il male di vivere, con tutto quello che si frappone tra noi e il flusso costante che chiamiamo vita.
C’è un sutra, un discorso, del Buddha che si intitola “Il discorso della freccia”. In esso, il Buddha spiega come chi non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali sperimenta, esattamente come chi li ha ricevuti, sensazioni piacevoli, spiacevoli, e né piacevoli né spiacevoli. Ma qualcosa li distingue profondamente. Il non praticante è come se fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da una seconda freccia, cosi da percepire il dolore di due frecce. Questa seconda freccia è la sensazione mentale di avversione nei confronti delle sensazioni dolorose e di attaccamento nei confronti di quelle piacevoli. E questa aggiunta al nudo, puro sentire che crea la sofferenza non necessaria di cui la Via buddhista ci insegna a liberarci. E come? Tornando a un sentire spoglio, senza aggiungere, senza togliere, lasciandoci attraversare dall’impatto con il mondo. L’aggiunta che noi facciamo al male è la vergogna, la paura, il senso di fallimento, l’avversione ostinata alla sofferenza. Ma noi sappiamo, organicamente, fisicamente, provare la sofferenza? Sappiamo ancora sentirla? Per questo parlo non solo di non aggiungere ma anche di non togliere niente al sentire.
Quante volte ho visto usare la meditazione per non sentire, per creare una personalità spirituale che ci ripari dal mondo, dai conflitti, dai desideri, dalla rabbia, dalla paura, dal piacere. Quante volte si parla di osservare le sensazioni, le emozioni, i pensieri perché si sta cercando in realtà di creare una scissione, un non sentire, un tenere a distanza la vita stessa. Mentre si tratta di entrare in tale intimità con il sentire stesso, con il flusso vitale, da non lasciare spazio alcuno nemmeno all’io, a quel costante sentirsi colpiti in prima persona, «”Perché a me, proprio a me?” che è l’autoriferimento sempre in agguato. Si tratta di interrompere l’autonarrazione, la seconda freccia, che descrive, aggiunge commenti, cronache in diretta o in differita, personaggi, personalità, film e storie. E stare invece con la nudità del sentire, lasciarsi fare e disfare dal sentire che non ci è nemico, è tutt’uno con l’essere al mondo, con il ricevere l’impatto sensoriale con il mondo. Certo, si tratta di una pratica graduale, e occorre creare inizialmente un nido, un luogo in cui tornare, il respiro, il corpo, le sensazioni, la coscienza ben radicata nell’organismo, un luogo a cui poter fare costante ritorno. Come gli uccelli che iniziano a volare, non si allontanano ma troppo dal nido, da principio. Poi, scoprono che ci sono tanti appoggi, piccoli nidi provvisori, stazioni di sosta: rami, tetti, muri, sporgenze. Allora si va, più liberamente, più sicuri, perché il ritorno è sempre più frequente e a portata di mano, perché si impara a tornare a sé sempre e ovunque, perché non c’è più un’unica postura per farlo, ma piuttosto un atteggiamento di diffusa fiducia nel percorso.
Allora anche la paura diventa sensibile, vivibile, sostenibile. A dosi omeopatiche inizialmente e poi sempre più cosi come viene. C’è un no nella paura, non vogliamo viverla. Ricordo notti intere in cui la mia paura si trasformava in terrore e pietrificazione perché mi rifiutavo di sentirla, non ero pronta. In realtà, una sensazione non può durare che al massimo due o tre minuti, poi cambia. E la paura arriva a ondate, ha pause, intervalli, a capo. Quello che la può rendere apparentemente continua sono le nostre aggiunte, i commenti, le critiche, l’autonarrazione.
Notavo di recente come per chi vive in città è diventata una lotta accanita evitare qualsiasi piccolo disagio, come il caldo, una pioggia improvvisa, le zanzare. Non riusciamo a fermarci a sentire la spiacevolezza della sofferenza, ad assaporare esattamente com’è, Ma ci vuole un centro, qualcosa a cui tornare, altrimenti ci si polverizza. Perfino per una zanzara, ci si frantuma in irritazioni e rabbie assolutamente sproporzionate. Vale anche per la stanchezza. Noi occidentali siamo spaventatissimi dalla stanchezza, forse perché svuota di io, fa sentire vaghi, vacui. Ho visto indiani stanchi rannicchiarsi tranquillamente ai bordi di una strada e dormire, o sdraiarsi durante i discorsi di un Guru, di un Maestro, e schiacciare un pisolino, poi riprendere l’ascolto belli freschi. Impensabile in Occidente, dove sempre più spesso si sente dire: «Sono cosi stanco!» Ma la stanchezza non viene sentita fisicamente, assaporata, altrimenti, semplicemente, ci riposeremmo, perché sentire è già riposare dall’aggiunta mentale che facciamo alla sensazione.
La paura è sempre nel tempo. E nel passato, la paura di qualcosa che è già avvenuto e temiamo ritorni o si ripeta. O nel futuro come anticipazione di qualcosa. O nel presente come ansia che non ci permette di sentire quel che sta realmente accadendo. La consapevolezza non appartiene al tempo, vive nel fluire, trascorre, tutt’uno con la vita stessa. Come il respiro. Come l’andatura dei passi, un piede si solleva, l’altro sta appoggiato a terra, c’è una costante danza di pieno e di vuoto, di lasciare e di contattare. La consapevolezza non osserva il fiume, è il fiume.
Nel male, accolto, sentito, c’è la risposta al male, c’è il bene. Non basta leggerlo o sentirlo dire, bisogna provarlo, proprio ora, proprio qui, in pieno corpo. Ogni sensazione, ogni emozione, ogni pensiero è per sua stessa natura pura consapevolezza. Niente interrompe la consapevolezza, è come credere che le onde interrompano l’oceano. Le onde sono il movimento dell’acqua, la sua energia. Cosi, sensazioni, pensieri, emozioni sono le onde, l’energia che attraversa la nostra coscienza che fondamentalmente è pace.
La paura diffusa, sfondo costante della nostra epoca, di fine del futuro è tutt’uno con il concetto irresponsabile di crescita e di progresso che ha ridotto la natura a un fondo eternamente attingibile. Non è cosi, sappiamo che c’è una fine alle risorse, ora lo sappiamo. Saper stare nel flusso, sapere che se c’è alba c’è tramonto, se c’è nascita c’è morte, e che se c’è tramonto c’è alba e se c’è morte c’è nascita, insegna a tornare alla fonte anziché orientarsi sempre a una meta. Andare con la corrente, sentire e assecondare, non opporre inutili resistenze. Non ha niente a che fare con la passività, è anzi un totale balzo nel fiume della vita. Non siamo soli, siamo tutto, e per scoprirlo occorre attraversare un profondissimo, assoluto senso di solitudine. La paura della solitudine è un altro degli osta coli al percorso verso se stessi, un percorso indispensabile.
Quello che la poesia e la meditazione come tutte le Vie fanno è di scollarci dai luoghi comuni, dal calduccio degli stereotipi condivisi. La meditazione non va utilizzata per pacificare tutto, ma per sentire gli strappi, le lacerazioni, le paure di un’epoca e di un individuo che ne fa parte, e trasformarle in punto di partenza per una nuova fiducia e un senso di responsabilità che è capacità di rispondere alle sfide che ogni tempo propone a noi esseri umani sapendo che siamo fatti per farcela. E il concetto di farcela che va riscritto in noi, non più la conquista, la sfida, la crescita all’infinito, ma il sintonizzarsi, l’ascolto umile e attento degli insegnamenti che bussano nei fili d’erba e negli astri, nelle zanzare e negli elefanti, nelle creature che stanno scomparendo e in tutto quello che resta, nella responsabilità di stare svegli e sensibili in questo immenso non-sapere.»
[ Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“ ]
– Chandra Livia Candiani (amazon)
– Chandra Livia Candiani (macrolibrarsi)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Chandra_Livia_Candiani