Credo che questo testo sia piuttosto significativo perché riporta la testimonianza di una persona con un background totalmente occidentale e cristiano che si è trovata a vivere esperienze mistiche paragonabili – se non finanche familiari – a quelle dei grandi maestri della tradizione orientale. Tutto ciò a riprova del fatto che il viaggio spirituale, se condotto con serietà e dedizione, trascende le coordinate culturali di colui o colei che lo intraprende. Ad ogni modo, la freschezza e la singolarità del racconto di Bernadette Roberts mi ha lasciato così stupito da indurmi a considerarlo – oltre che chiarificatore – direi finanche essenziale …
«La mia passata esperienza mi aveva portato a conoscere intimamente vari tipi e livelli di silenzio. C’è un silenzio interiore; c’è un silenzio che discende dall’esterno; un silenzio che ferma l’esistenza e un silenzio che inghiotte l’universo intero. C’è un silenzio del sé e delle sue facoltà: volontà, pensiero, emozione. C’è un silenzio in cui non c’è nulla, un silenzio in cui c’è qualcosa; c’è infine il silenzio del non-sé e il silenzio di Dio. Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio.
In un’occasione, tuttavia, è sembrato che questa strada fosse giunta al termine: è stato quando sono penetrata in un silenzio da cui non sarei mai totalmente riemersa. Ma, prima di iniziare il racconto, devo fare una premessa: in precedenza, in alcune occasioni, ero sprofondata in un silenzio che pervadeva ogni facoltà in maniera così assoluta da provocarmi una sottile sensazione di paura. Era la paura di essere inghiottita, di perdermi, di essere annullata e cancellata, forse per sempre. In quei momenti, per tenere lontano il terrore, con un movimento interiore abbandonavo il mio destino a Dio. Era come un pensiero, un atto di volontà, una sorta di proiezione. E ogni volta che facevo questo, il silenzio si rompeva e io gradualmente tornavo al mio sé abituale e alla sicurezza. Finché un giorno le cose andarono diversamente.
Nella strada in cui abitavo, poco oltre casa mia, c’era un monastero sul mare, e i pomeriggi in cui potevo liberarmi e uscire mi piaceva trascorrere qualche ora da sola nel silenzio della sua cappella. Quel pomeriggio non era diverso dagli altri. C’era come ogni volta un silenzio diffuso, tentacolare, e come ogni volta io attesi che l’affacciarsi della paura lo rompesse. Ma in quest’occasione la paura non venne. Forse per l’abitudine dell’attesa o perché la paura era sotto controllo, per qualche secondo provai un senso di suspense, di tensione, quasi in attesa che la paura mi toccasse. Durante quei secondi di attesa, provai la sensazione di essere in bilico sull’orlo di un precipizio, o in equilibrio su una corda sottile, avendo il noto (me stessa) da un lato e l’ignoto (Dio) dall’altro. Un movimento di paura avrebbe voluto dire piegare verso il sé e il conosciuto. Sarei passata, questa volta, o sarei ricaduta nel mio sé, come sempre? Dal momento che non era in mio potere muovermi o scegliere, capii che la decisione non era mia; dentro di me era tutto calmo, silenzioso e immoto. In questa calma, non avvertii il momento in cui la paura e la tensione dell’attesa mi abbandonarono. Immobile, continuai ad aspettare un movimento proveniente dall’esterno e quando questo non venne restai semplicemente in una grande calma.
La suora stava agitando rumorosamente le chiavi della cappella. Era l’ora di chiudere, e l’ora di andare a casa, a preparare la cena ai ragazzi. In passato, era sempre stato difficile dovermi improvvisamente strappare a un silenzio profondo: le mie energie in quel momento erano al loro minimo e muovermi richiedeva altrettanto sforzo che sollevare un peso morto. Questa volta invece improvvisamente mi accadde di non pensare ad alzarmi ma di farlo, semplicemente. Penso che non fu una cosa da nulla quello che imparai, perché lasciai la cappella come una foglia portata dal vento. Ero sicura che una volta fuori avrei ritrovato le mie normali energie e il controllo della mia mente, ma quel giorno la cosa fu problematica: ricadevo continuamente nel grande silenzio. Andare verso casa fu una costante lotta contro la completa incoscienza, e quando cercai di approntare la cena fu come voler smuovere una montagna.
Per tre logoranti giorni, non feci che lottare per rimanere sveglia e tenere a bada il silenzio che a ogni secondo minacciava di sopraffarmi. L’unico modo in cui riuscii a sbrigare un minimo di faccende domestiche fu tenendo ostinatamente in mente quello che stavo facendo: adesso sbuccio le carote, adesso le taglio, adesso prendo una pentola, adesso metto l’acqua nella pentola, e così via, fino a quando ero così esausta che dovevo correre a letto. Non facevo in tempo a mettermi giù che sprofondavo nel vuoto. A volte mi sembrava di essere stata fuori di coscienza per ore, quando invece erano passati solo cinque minuti: altre volte avrei giurato che fossero passati solo cinque minuti quando invece si era trattato di ore. In quel vuoto non c’erano sogni, né la coscienza di ciò che mi circondava, non c’erano pensieri né esperienze: non c’era assolutamente nulla.
Il quarto giorno, sentii il silenzio alleggerirsi, così che potei stare sveglia con minore sforzo e, di conseguenza, trovai il coraggio di andare a fare la spesa. Non so come accadde, fatto sta che a un tratto mi trovai a essere scossa da una signora che mi chiedeva se stessi dormendo. Le sorrisi, cercando di orientarmi, poiché sul momento non avevo la più pallida idea di come fossi finita in quel negozio o di cosa stessi facendo. Per cui, dovetti ricominciare tutto da capo: adesso spingo il carrello, adesso devo prendere delle arance, e via dicendo. La mattina del quinto giorno, non riuscii a trovare le pantofole in nessun posto, ma, al momento di preparare la colazione per i ragazzi, aprii il frigo e ci trovai qualcosa di decisamente assurdo.
Al nono giorno, il silenzio era talmente diminuito d’intensità che mi sentii sicura che, ancora un po’, e tutto sarebbe tornato normale. Ma, via via che passavano i giorni e mi riscoprivo in grado di funzionare come al solito, notavo contemporaneamente che c’era qualcosa che mancava, per quanto non riuscissi a toccarlo con mano. Qualcosa, o meglio una parte di me, non era tornato. Una parte di me era ancora in silenzio. Era come se un pezzo della mia mente avesse definitivamente calato la serranda. Me la presi con la memoria, che era l’ultima a tornare; quando questa infine tornò, mi accorsi che era diventata piatta e spenta, come la sbiadita pellicola di un vecchio film. Era morta. Non soltanto il passato lontano, ma anche quello di pochi minuti prima, si erano come svuotati.
Ora, quando qualcosa è morto, si rinuncia presto a volerlo risuscitare; allo stesso modo, quando la memoria si è spenta, uno impara a vivere come non avesse un passato, impara a vivere nel momento presente. Che questo ora potesse avvenire senza sforzo, e non per disperazione, era il risultato positivo di un’esperienza altrimenti massacrante. E anche quando riconquistai la memoria pratica, la capacità di vivere nel presente rimase. Con il ritorno della memoria pratica, tuttavia, ridimensionai la passata nozione di ciò che mancava e decisi che l’aspetto silenzioso della mia mente era in realtà una sorta di ‘assorbimento’, un assorbimento nello sconosciuto, che per me naturalmente era Dio. Era come una continua contemplazione del vasto, silenzioso Inconoscibile, una contemplazione che nessuna attività poteva interrompere. Questo fu un altro gradito risultato dell’esperienza iniziale.
L’interpretazione dell’aspetto silenzioso della mia mente come un ‘essere assorti’ sembrò bastare, come spiegazione, per circa un mese, quando cambiai di nuovo idea e decisi che l’assorbimento era in realtà consapevolezza, un particolare tipo di ‘vedere’; per cui quanto era realmente accaduto non era affatto una chiusura, ma piuttosto un’apertura; non era venuto a mancare nulla, era invece stato aggiunto ‘qualcosa’. Dopo un certo tempo, tuttavia, anche questa idea sembrò inadeguata; in un modo o nell’altro non mi soddisfaceva più; era accaduto qualcos’altro, per cui decisi di andare in biblioteca, per vedere se potevo risolvere il mistero con l’esperienza di qualcun altro.
A questo punto scoprii che, se non fossi riuscita a trovare quanto cercavo nelle opere di san Giovanni della Croce, probabilmente non lo avrei trovato in assoluto. E sebbene le opere del Santo mi fossero familiari, non riuscii a trovarvi nessuna spiegazione della mia specifica esperienza; né mi riuscì di trovarla in un solo libro della biblioteca. Ma fu tornando a casa quel giorno, mentre scendevo giù per la collina, avendo di fronte la vista della vallata e dei monti all’intorno, che a un tratto rivolsi lo sguardo al mio interno: e ciò che vidi mi fece fermare di colpo. Al posto del familiare, seppure non localizzato, centro di me stessa, non c’era nulla: c’era il vuoto. Nello stesso momento in cui vidi questo, fui invasa da un flusso di calma gioia e seppi, finalmente, cos’era ciò che mancava: era il mio ‘sé’.
Fisicamente, fu come se mi fosse stato tolto un grande fardello di dosso; mi sentivo così leggera che lo sguardo mi corse ai piedi, sembrava che non poggiassero a terra. In seguito riflettei sull’esperienza di san Paolo: “Ora non io, ma Cristo vive in me”, e mi resi conto che, nonostante il vuoto, nessun altro era entrato a prendere il mio posto; per cui decisi che Cristo era la gioia, il vuoto stesso; Egli era tutto quanto rimaneva di questa esperienza umana. Per giorni mi portai dentro questa gioia, così grande, in certi momenti, che mi stupivo della solidità della diga e mi chiedevo per quanto tempo ancora avrebbe retto.
Considero quest’esperienza il culmine della mia vocazione contemplativa. Era la conclusione di una domanda che mi aveva assillato per anni: dove finisco ‘io’ e comincia Dio? Anno dopo anno, il confine che ci separava era diventato così sottile e vago che per la maggior parte del tempo non riuscivo a vederlo, eppure la mia mente continuava a voler sapere: che cosa è Suo e che cosa mio? Ora il problema era superato. Non c’era più ‘il mio’, c’era soltanto il Suo. Avrei potuto vivere in questo stato di gioia per il resto della vita, ma non era scritto così nel Grande Piano. Sarebbe stata questione di giorni, forse una settimana, e la mia intera vita spirituale – il lavoro, il travaglio, le esperienze e i traguardi d’una vita – sarebbe improvvisamente esplosa in un milione di pezzi mai più recuperabili: senza lasciare nulla, assolutamente nulla.»
(Da: L’esperienza del non-sé – Bernadette Roberts)
(The Experience of No-Self: A Contemplative Journey – Bernadette Roberts)