Donde ha origine la sofferenza? Charlotte Joko-Beck ce lo spiega in guisa encomiabile offrendo una postilla tanto accurata quanto sorprendente: uno degli attriti più clamorosi che hanno luogo nella propria coscienza è la dittatura dei desideri che devono appagare il soggettivo falso senso dell’io. Al centro di siffatto ignobile mercimonio di presuntuose gratificazioni c’è il desiderio. Da non confondere, comunque, con l’esercizio della pura e fattiva volontà. Uno degli errori consiste nel credersi, inconsciamente, al centro dell’universo. Sicché le personali aspettative dovrebbero, sempre e comunque, essere viepiù soddisfatte. La delusione che si prova quando ci rendiamo conto che non tutto potrà mai collimare con i propri desideri e quindi il senso di vuoto che tutto ciò comporta, è la migliore occasione per osservare noi stessi, le nostre più peculiari reazioni. Di per sé, una straordinaria occasione di meditazione. […]
«La sofferenza ha origine dal falso senso dell’io, un io concettuale. Assegnando realtà all’io, e scambiando per verità i concetti che lo formano, avvertiamo il bisogno di proteggerlo e di esaudirne i desideri. Se pensiamo che la cucina debba essere uno specchio ci diamo da fare per obbedire al dettato, anche passando sopra ad altre persone pur di ottenere ciò che ci siamo prefissi. Un ‘io’ è una persona convinta della Verità dei propri concetti, ossessionata dall’idea di dover fare tutto quanto è in suo potere per soddisfare l’io con ciò che corrisponde ai suoi concetti di piacere e comodità.
Vivendo così, il nostro universo è regolato da due parole: io voglio. Guardiamo bene, e vedremo come l’io voglio determini la nostra vita. Voglio approvazione, voglio successo, voglio essere illuminato, voglio pace, voglio salute, eccitazione, amore. Io voglio, voglio, voglio. Vogliamo perché abbiamo caro il nostro concetto di io. Vogliamo che la vita si accordi alla nostra concezione della vita.
Se, ad esempio, vogliamo che ci considerino altruisti, manipoleremo le cose per apparire tali (il che, probabilmente, non significa che lo siamo davvero). Nessuna nostra azione, nessun comportamento è libero dall’idea di ottenere qualcosa in cambio. Agiamo per avere un riscontro. Il vero scambio è molto banale: io ti dò una certa quantità di denaro e tu mi dai il corrispettivo in banane. Ma il gioco di aspettarci qualcosa in cambio per le nostre azioni è ben diverso.
Quando faccio dono del mio tempo, della mia energia o del mio denaro, cosa mi aspetto in cambio? Cosa vi aspettate? Forse gratitudine. Qualunque cosa diamo, ci aspettiamo altro in cambio. Vogliamo che l’altro soddisfi i nostri concetti personali. Dando, ci sentiamo nobili. Ti sto dando: sii gentile e prendine nota. Ecco lo scambio. È un baratto; abbiamo fatto della vita ‘là fuori’ un oggetto di baratto.
Collaboriamo con una qualunque organizzazione e vogliamo un riscontro al nostro impegno, l’altro risvolto della faccenda. Può trattarsi di riconoscimento, stima, di un trattamento speciale.
In una situazione difficile pazientiamo e teniamo a freno la lingua (“Chiunque altro sarebbe esploso ma io no, io sono una persona paziente”): cosa ci aspettiamo in cambio? Che qualcuno si accorga delle nostre buone qualità. L’attesa del qualcosa in cambio è come se recasse impresso il simbolo del dollaro. Oppure, capiamo e perdoniamo: “Poverino, è un tipo così complicato”. Ci sacrifichiamo, in cambio di che cosa? È l’area in cui si giocano i giochi genitorifigli. “Tutte le cose che ho fatto per te, e tu sai darmi solo ingratitudine!”. Ecco la mentalità dello scambio: manipolativa, una forma più sottile di dirottamento.
Raramente otteniamo ciò che vogliamo. Una buona pratica ci farà vedere l’errore insito nell’aspettativa di ricevere qualcosa in cambio. Il mondo non è fatto di oggetti ‘esterni’, il cui scopo è di rispondere alle mie idee. Col tempo vedremo che quasi tutto ciò che facciamo è in vista di un riscontro. Dolorosa comprensione!
Quando l’aspettativa decade, quando cioè non troviamo ciò che cercavamo, inizia realmente la pratica. Trungpa Rimpoche ha detto: “La delusione è il veicolo migliore per procedere sul sentiero del Dharma”. La delusione è un’amica sincera, una guida infallibile; ma nessuno la vuole per amica.
Il rifiuto di lavorare con la delusione è una rottura dei Precetti: invece di sperimentare la delusione, ricorriamo all’ira, ai pettegolezzi, alla critica. Eppure, il frutto viene dallo stare con la delusione o almeno, se non siamo disposti a farlo, dall’osservare la nostra indisponibilità. I momenti di delusione sono doni impareggiabili che, se siamo all’erta, scopriamo di ricevere molte volte al giorno. Il dono ci è dato ogni volta che penso: “Non è questo che volevo”.
Poiché le situazioni quotidiane si susseguono velocemente, spesso non abbiamo consapevolezza di quanto avviene. Sedendo immobili, invece, abbiamo la possibilità di osservare e sperimentare la delusione. La seduta giornaliera è il nostro pane quotidiano, il lievito del dharma, senza il quale rimaniamo nella confusione.»
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“ ]
– Charlotte Joko Beck (macrolibrarsi)
– Charlotte Joko Beck (amazon)
– Joko Beck – Wikipedia