Dare la colpa agli altri, attribuirgli le proprie defaillance, idiosincrasie, scelte sbagliate, mancanza di coraggio, è un modo quanto mai consolidato per rifuggire da se stessi, quindi dal proprio centro più intimo, da tutto ciò a cui potrebbe condurci, prima o poi, qualunque pratica introspettiva e, nello specifico, la meditazione. Alfine di evitare il proprio baricentro esistenziale che, lì per lì, avvertiamo come un vuoto intrinseco, ricorriamo a ogni sorta di succedaneo, in genere solo psichico, ma talvolta finanche fisico. Tuttavia il comportamento più in auge è soprattutto «l‘accusa», un modo per proteggere il nostro ego, per procrastinare la sua – inevitabile – debacle… Leggiamo, ora, quale alternativa ci prospetta, a tal proposito, la monaca buddhista Ane Pema Chodron (Deirdre Blomfield-Brown)…
«Abitualmente innalziamo una barriera chiamata rimprovero che ci impedisce di comunicare genuinamente con gli altri e la rafforziamo con le nostre idee su chi sta dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. Lo facciamo con le persone più vicine a noi, con i sistemi politici, con tutti quei generi di cose che non ci piacciono dei nostri colleghi o della nostra società. Si tratta di un sistema molto comune, antico e perfezionato nei secoli per cercare di sentirsi meglio. Dare la colpa agli altri. Dare la colpa agli altri è un modo per proteggere i nostri cuori, per cercare di proteggere ciò che è tenero e aperto e delicato dentro di noi. Piuttosto che riconoscere quel dolore, ci precipitiamo a trovare un terreno confortevole.
Questo motto è un invito utile e interessante a iniziare a eliminare quella tendenza radicata, antica, abituale a voler avere tutto come piace a noi. Per prima cosa, quando stiamo per dare la colpa a qualcuno, il modo per iniziare sarebbe cercare di entrare in contatto con la sensazione che si prova a stare attaccati così saldamente a noi stessi. Come ci si sente a rimproverare qualcuno? Come ci si sente a rifiutare? Come ci si sente a odiare? Come ci si sente a essere giustamente indignati?
In ciascuno di noi c’è tantissima tenerezza, moltissimo cuore. Toccare quel luogo tenero potrebbe essere il punto di partenza. La compassione sta tutta in questo. Quando smettiamo di rimproverare abbastanza a lungo da darci uno spazio aperto in cui sentire il nostro luogo tenero, è come se ci tuffassimo per toccare una grande ferita che sta proprio sotto l’involucro di protezione costruito da tutti quei rimproveri.
Le parole buddhiste come compassione e vuoto non vogliono dire molto finché non iniziamo a coltivare la nostra innata abilità di essere semplicemente lì con il dolore, con un cuore aperto e la volontà di non cercare immediatamente di recuperare terreno. Per esempio, se quel che proviamo è rabbia, di solito pensiamo che vi siano solo due modi per rapportarci a essa. Uno è quello di rimproverare gli altri. Dare la colpa di tutto a qualcun altro; buttare tutte le accuse sugli altri. L’altro è quello di sentirsi colpevoli per la nostra rabbia e rimproverare noi stessi.
L’accusa è un modo per rafforzarci. Non solo puntiamo il dito su qualcosa di “sbagliato”, ma vogliamo pure rendere le cose “giuste”. In qualsiasi rapporto, matrimonio o genitorialità, lavoro, comunità spirituale o altro, potremmo anche scoprire di voler rendere le cose “più giuste” di quello che sono, perché siamo un poco nervosi. Forse non corrispondono esattamente ai nostri standard, quindi le giustifichiamo e cerchiamo di renderle assolutamente giuste. Diciamo a tutti che nostro marito o moglie, figlio, insegnante, gruppo di supporto sta facendo qualcosa di particolarmente antisociale per validi motivi spirituali. Oppure saltiamo fuori con qualche credo dogmatico e ci aggrappiamo a questo, categoricamente, ancora una volta per rendere più solido il nostro terreno. Abbiamo la sensazione di dover fare le cose in modo giusto secondo i nostri standard. Se proprio non riusciamo più a reggere la situazione, questa supera il limite e allora sbagliamo, pensando che essa sia l’unica alternativa. Una cosa è giusta o sbagliata.
Iniziamo da noi stessi. Ci mettiamo dalla parte giusta o sbagliata ogni giorno, ogni settimana, ogni mese e ogni anno della nostra vita. Sentiamo di dover avere ragione in modo da poterci sentire bene. Non vogliamo avere torto perché allora ci sentiremmo male. Però potremmo mostrare più compassione nei confronti di tutte queste nostre parti. Quando ci sentiamo nel giusto, possiamo osservare questa sensazione. Sentirci nel giusto può farci stare bene; possiamo essere completamente sicuri di quanto abbiamo ragione e avere un sacco di gente che concordi con noi su quanto abbiamo ragione. Ma supponiamo che qualcuno non sia d’accordo con noi, cosa succederebbe? Ci arrabbieremmo e saremmo aggressivi? Se guardassimo proprio dentro l’istante esatto della rabbia o dell’aggressività, potremmo vedere che è proprio di questo che sono fatte le guerre e le rivolte razziali: la sensazione che noi dobbiamo avere ragione, essere sbattuti da parte e giustamente indignarci quando qualcuno non è d’accordo con noi. Del resto, quando sentiamo di essere dalla parte del torto, convinti di esserlo, e ci irrigidiamo in questa sensazione di torto, anche in questo caso possiamo osservarla. L’intera faccenda di giusto e sbagliato, ragione e torto ci chiude e rimpicciolisce il nostro mondo. Volere situazioni e rapporti solidi, permanenti e afferrabili nasconde la sostanza della faccenda, e cioè che fondamentalmente le cose non hanno terra sotto i piedi.
Invece di mettere gli altri dalla parte giusta o sbagliata, oppure di intrappolare il giusto e lo sbagliato dentro di noi, esiste una via di mezzo, una via di mezzo molto potente. Possiamo immaginarla seduta sul filo del rasoio, che non cade né a destra né a sinistra. Questa via di mezzo significa non restare aggrappati così saldamente alla nostra versione. Significa mantenere i cuori e le menti abbastanza aperti da accarezzare l’idea che quando ci mettiamo dalla parte sbagliata stiamo ancora cercando di recuperare terreno o sicurezza. Allo stesso modo, quando ci mettiamo dalla parte giusta, stiamo ancora cercando di recuperare terreno o sicurezza. Le menti e i cuori riuscirebbero a essere abbastanza grandi da restare semplicemente in quello spazio dove non siamo così certi di chi ha torto e chi ragione? Riusciremmo a non avere programmi quando entriamo in una stanza con un’altra persona, a non sapere cosa dire, a non mettere l’altro dalla parte giusta o sbagliata? Riusciremmo a vedere, ascoltare, sentire le altre persone come sono veramente? Praticare in questo modo è efficace, perché ci ritroveremo a correre continuamente di qui e di là per cercare di sentirci di nuovo sicuri — per mettere noi o gli altri dalla parte giusta o sbagliata. Ma la vera comunicazione può verificarsi soltanto in quello spazio aperto.
L’azione compassionevole, essere lì per gli altri, essere in grado di agire e parlare in modo da comunicare, inizia con il vedere noi stessi quando cominciamo a metterci dalla parte giusta o dalla parte sbagliata. In quel momento preciso, potremmo semplicemente contemplare il fatto che esiste un’alternativa più grande alle due scelte, una specie di luogo meno rigido e meno statico in cui potremmo vivere. Questo luogo, se riusciremo a toccarlo, ci aiuterà a esercitarci per tutta la vita ad aprirci ulteriormente a tutto ciò che sentiamo, ad aprirci ulteriormente anziché a chiuderci di più. Scopriremo che non appena inizieremo a dedicarci a questa pratica, non appena inizieremo ad avere la sensazione di celebrare aspetti di noi stessi che prima consideravamo impossibili, qualcosa si smuoverà dentro di noi. Qualcosa si smuoverà in modo permanente. I nostri vecchi schemi inizieranno a essere meno rigidi, e impareremo a vedere le facce e ad ascoltare le parole di chi ci sta parlando.»
Da: Pema Chodron, “Se il mondo ti crolla addosso. Consigli dal cuore per i tempi difficili“