Quando il mio maestro di meditazione si recò per la prima volta da colui che in seguito sarebbe divenuto il suo maestro per chiedergli come meditare quegli l’osservò sorpreso, lo squadrò da cima a fondo, quasi stupito, come se avesse visto un fantasma e l’ignorò.
Il mio maestro ci rimase un po’ male, tuttavia per la straordinaria reputazione dello stimato e riverito venerabile precettore tentò di dissimulare lo sconcerto fingendosi impassibile. Ma invece di una qualche forma di riguardo ricevette un ulteriore sberleffo, fu ancor di più trascurato.
Mogio mogio sedette in silenzio. Sennonché cominciò a notare tutta una serie di particolari dell’ambiente in cui si svolgeva la pratica di meditazione: la cornice che racchiudeva l’arcinoto emblema zen – il cerchio dell’illuminazione – era un po’ riversa; i raggi di luce – che filtravano impertinenti attraverso le imposte delle due grandi finestre leggermente socchiuse – creavano una sorta di discontinuità di cui non riusciva a comprenderne però la vera causa. Poi udì il fruscio provocato da un inserviente che evidentemente ripuliva la sala adiacente, dietro la bianca e spoglia parete verso cui aveva creduto opportuno rivolgersi.
Il suo esercizio consisteva, tra l’altro, nell’ignorare i pensieri più capricciosi, quelli indesiderati, anarchici; pensieri che l’assillavano senza dargli mai tregua. Infine udì l’allegrezza del cinguettio di alcuni uccelli che avevano nidificato nei pressi, probabilmente sotto l’aggetto del tetto rosso che sporgeva pressoché premuroso per proteggere quelli che come lui credevano di possedere già le chiavi del nirvana, mentre invece la distrazione più acuta li faceva orbitare intorno alla verità, ma senza nemmeno conoscerne i dintorni.
Fintantoché d’improvviso afferrò da sé l’antifona. Già, si disse, la prima regola per meditare è l’attenzione.