Come accade spesso finanche tra i praticanti più pazienti la rana zen sì stancò improvvisamente di meditare. Qualcheduno penserà che è lecito, più che umano tediarsi di star lì col naso all’insù a contemplare uno sciocco muro bianco. Ma il movente della rana non consisteva nel superare se stessa, nell’autodisciplina. Ci fu un tempo in cui credeva che dovesse accettare. Poi s’illuse che sarebbe stato sufficiente realizzare lo zero, il nulla-tutto; trascendere gli impulsi; disporsi a ricevere; riconoscere il silenzio intrinseco; cogliere i frutti del cielo interiore, ma senza che nessuno li avesse mai coltivati; seguire la via, ma senza che nessuno le indicasse il sentiero, quindi d’impulso … o per amore.
La poveretta non sapeva più che pensare, a quale Dio delle rane rivolgersi, se restare o andar via. Cominciò a farsi strada l’idea che avesse sprecato il suo tempo, gettato alle ortiche la sua, pur splendida e degna, comunque del massimo rispetto, povera vita. Cosa fece? Beh, Non state lì a rimuginarci più di tanto. Chiese udienza al maestro.
L’austero nobiluomo, riverito e adorato come un Buddha – un Buddha che comunque a 80 anni suonati coltivava, e da solo, il considerevole orto del tempio – l’accolse a braccia aperte. “Maestro, la mia medicina”, farfugliò, tanto per rimanere nel solco della sua atavica ed extragalattica tradizione, quella delle rane zen.
Il vegliardo l’osservò. Dall’alto della sua svettante statura morale? No! Dall’alto del suo luminoso risveglio? No! Non insistete, l’osservò e basta. “Figliola”, esclamò sorridendo tra i baffi, che ovviamente non aveva. Avete mai visto un maestro zen con i baffi? Io no. “Figliola, se non sei soddisfatta di te stessa non farai mai progressi”.
“Tutto qui?”, pensò la rana. Tutto qui, le parve annuire l’arcigatto del Tempio più che mai soddisfatto della propria illustre dimora. “Soddisfatti di voi stessi”, sussurrò concludendo lo scrivente, non dimenticatelo.